Giovanni Battista Pergolesi

Compositore precoce la cui tragica fine nel fiore degli anni rese la sua figura leggendaria, Giovanni Battista Draghi, noto come Pergolesi, nacque a Jesi, in provincia di Ancona, l'anno 1710, ed è considerato fra i massimi esponenti della scuola musicale napoletana. Pergolesi appartenne alla seconda generazione dello Stile galante, se si considera che un autore come Leonardo Vinci nacque negli anni Novanta del Seicento.
Lo Stile galante fu un genere musicale che vide un ritorno alla semplicità classica a seguito della complessità del tardo Barocco, diffusosi in concomitanza con l'affermarsi delle idee dell'Illuminismo e volto ad esprimere la grazia, un concetto estetico soave e delicato che dominò gran parte del secolo durante la produzione librettistica di Pietro Metastasio. Un esponente di questa corrente musicale fu il campano Niccolò Jommelli, contemporaneo di Pergolesi; quest'ultimo fu però un musicista unico, dal talento innato paragonabile a quello di Mozart, capace di maturare uno stile ben consolidato in pochissimi anni, recandosi giovanissimo, orfano dei genitori, nella Napoli austriaca, una delle città più vivaci dal punto di vista musicale, meta ambita per ogni compositore europeo.
Il genio di Pergolesi eccelse in particolare nell'opera buffa, divenendo celebre per il genere degli intermezzi, un fenomeno tipicamente napoletano dalla breve storia il cui apice è rappresentato dalla produzione di Johann Adolf Hasse ma soprattutto da un titolo datato 1733, vale a dire La serva padrona, il capolavoro di Pergolesi.

Recarsi a teatro nel corso del XVIII secolo era un'esperienza unica e di proporzioni colossali, basti pensare che gli intermezzi andavano in scena fra un atto e l'altro del dramma per musica, dando vita ad un vero e proprio spettacolo nello spettacolo. Diversi furono gli autori che si dedicarono a questo genere, fra cui, oltre a Pergolesi e Hasse, i due più celebri, anche Domenico Sarro, Vinci e per ultimo Jommelli.
Composti per alleggerire la tensione del dramma e soddisfare l'esigenza comica degli spettatori, gli intermezzi erano finalizzati ad allietare il pubblico in sala e, come detto, il loro elemento più peculiare era quello della fruizione, che avveniva insieme alla tragedia, in un'alternanza di emozioni contrastanti che creavano anche una suspense notevole. Se gli intermezzi erano tre, infatti, l'ultimo non andava in scena dopo il gran finale dell'opera, bensì immediatamente prima dell'ultima scena e dunque dello scioglimento della vicenda.
Spesso i titoli degli intermezzi prendono il nome dai due cantanti protagonisti, un personaggio femminile e uno maschile, quest'ultimo dalla voce grave, che in quel tempo era considerata meno rilevante perché il gusto ricadeva sulla voce acuta. Ad ognuno dei due personaggi è solitamente riservata, nel singolo intermezzo, un'aria, che poteva essere una cavatina, per poi concludere la scena con un duetto.
I testi e la musica degli intermezzi sono strettamente legati alle capacità attoriali dei cantanti, con il libretto caratterizzato da numerose allusioni e da un linguaggio quotidiano.

Livietta e Tracollo: La contadina astuta

Pur trattandosi degli intermezzi del dramma per musica Adriano in Siria, datato 1734, dunque di un anno successivi a La serva padrona, risulta maggiormente utile analizzare prima questi intermezzi in quanto presentano le caratteristiche classiche del genere, ossia quelle ricorrenti anche nei titoli degli altri autori; La serva padrona, pur essendo nota come gli intermezzi per antonomasia, è invece diversa e innovativa, unica nel suo genere.
Livietta e Tracollo sono i nomi dei due personaggi protagonisti, interpretati da una coppia di successo nel genere degli intermezzi, vale a dire Gioacchino Corrado e Laura Monti. L'occasione della rappresentazione fu appunto quella dell'opera Adriano in Siria, su libretto di Metastasio, presso il teatro San Bartolomeo di Napoli che tre anni dopo, a causa dei limiti strutturali e acustici, sarà sostituito dal San Carlo.
Gli intermezzi, che godettero di una fama più grande rispetto al dramma stesso, si basano su alcuni elementi fondamentali di tale genere settecentesco, tra cui il travestimento, la parodia dell'opera seria, infine la beffa da parte della donna, la contadina astuta, ai danni del personaggio maschile, uno sciocco.
La trama, riscattata solamente dalla musica di Pergolesi, è alquanto mediocre e finalizzata alla rappresentazione di alcune situazioni tipiche del teatro comico, come i travestimenti e il linguaggio parodistico. Il ladro Tracollo compare infatti sulla scena prima travestito come una donna polacca incinta, così da giocare sui fraintendimenti linguistici, poi da bizzarro astrologo, in quanto l'atto del dramma si era appena chiuso con un'aria di paragone incentrata sulle stelle del firmamento. Ogni tentativo di Tracollo per imbrogliare Livietta è però vano, perché la donna lo smaschera puntualmente grazie alla sua astuzia. Da sottolineare è anche la presenza di due mimi, che in una pièce con due soli cantanti risultano risorsa importante.
Nel finale, sebbene con poca verosimiglianza, i due personaggi vanno incontro al lieto fine e al matrimonio, giurandosi eterno amore.

La serva padrona

Si tratta degli intermezzi più conosciuti nella storia della musica, che resero celebre Pergolesi, ma ancor di più sono un modello assoluto di riferimento del genere che precedono di un anno La contadina astuta, ergendosi a punto di arrivo di una lunga tradizione a cui si dedicarono i principali esponenti del prestigioso contesto teatrale napoletano. Nonostante ciò i due intermezzi di Pergolesi presentano alcune novità che smentiscono buona parte di quelle peculiarità divenute ricorrenti negli intermezzi precedenti.
Il libretto, di Gennaro Antonio Federico, inserito nel melodramma Il prigionier superbo, rappresentato al teatro San Bartolomeo l'anno 1733, incontrò unanimi consensi sin da subito e la morte improvvisa del musicista pochi anni dopo non fece che incrementarne il mito.
I protagonisti sono Uberto, interpretato dal basso Gioacchino Corrado, e la sua serva Serpina, il soprano Laura Monti. Insieme ai due troviamo un mimo, Vespone, personaggio muto ma fondamentale ai fini della trama.
Caratteristica di primaria importanza dell'opera è quella di un testo con meno situazioni comiche scontate e un'attenzione incentrata sui sentimenti e le passioni dei due protagonisti.
Uberto non incarna più il classico anziano padrone di casa, borghese avaro e sciocco alla ricerca di amori impossibili e puntualmente gabbato, bensì è un uomo introverso, insicuro, dalla complessa personalità, che sopporta i capricci della sua serva perché l'ha accolta da bambina in casa sua crescendola con l'affetto di un padre nei confronti di una figlia.
A livello musicale si incomincia con una cavatina, una piccola aria, in cui Uberto presenta la situazione elencando i difetti di Serpina che trova insopportabili, fra cui il ritardo nel portargli una tazza di cioccolata che è solito bere non appena sveglio, ma che attende ormai con impazienza da molto tempo. La cioccolata negata diviene immediatamente metafora di un potere ormai decaduto.
Da notare è la vicinanza incredibile della musica al significato del testo, con Pergolesi che è in grado di restituire il senso d'attesa e le qualità proprie del testo di Federico, testimonianza del perfetto connubio fra compositore e librettista.
Altre due differenze rilevanti di questi intermezzi rispetto ai precedenti sono il fatto che i due personaggi si conoscono già, per di più da molto tempo, mentre negli altri il loro incontro è il motivo dell'intreccio e delle paradossali situazioni che si vengono a creare; bisogna poi considerare l'ambientazione, solitamente esterna e indeterminata, che qui è invece all'interno della dimora di Uberto, dove il padrone e la serva vivono insieme già da molti anni.
Serpina, come le altre protagoniste femminili degli intermezzi, è una donna scaltra e determinata, animata dalla volontà di elevarsi socialmente e riscattare la propria modesta condizione sociale. Uberto ci ha già detto che ella è cresciuta in casa sua e che comincia a diventare arrogante al punto che da serva diverrà padrona. Si tratta dell'anticipazione del finale, con la citazione del titolo come profezia di quello che accadrà. La donna si lamenta dichiarando di essere stufa e, pur essendo serva, di voler essere rispettata e riverita come una vera signora. Uberto, perdendo la pazienza, intima alla giovane di cambiare atteggiamento, ma allo stesso tempo esprime il proprio turbamento per la situazione che si è creata; tale dissidio viene espresso dal testo con l'utilizzo del monosillabo, tipico del pezzo comico. Serpina esprime nuovamente il suo disappunto per i continui rimbrotti nonostante le cure affettuose che dedica al padrone, poi il primo intermezzo si conclude con un vivace duetto caratterizzato dal solito litigio fra i due personaggi, con la donna che però dichiara che forse a lui, pur lamentandosi di continuo, convenga in realtà tenersi stretto l'affetto della sua serva e che anzi la vera occasione sarebbe quella di sposarla. Uberto, almeno inizialmente, rifiuta con decisione.
Nel secondo intermezzo Serpina capisce che è il momento di attuare il suo piano. Ordina così al servo Vespone di travestirsi da Capitan Tempesta, anch'egli un personaggio muto, un militare che fingerà di essere il fidanzato e promosso sposo della donna. Fino a questo momento il travestimento, topos ricorrente degli intermezzi, non si era ancora visto, ma come capiamo riguarda in questo caso solo una figura secondaria e non i protagonisti.
Uberto mostra i primi segni di cedimento, mostrando tristezza nell'apprendere la notizia dell'imminente matrimonio della sua serva, ma cercando di non farlo notare. Serpina si rende conto che il piano sta funzionando e così gli chiede di non dimenticarsi di lei anche se a volte è stata impertinente, cercando di muovere in lui un sentimento di pietà affermando che forse un giorno la penserà e, magari, le mancherà nonostante le discussioni. È questo il tratto più moderno e psicologico dell'opera, ben espresso nell'aria della donna da una musica profonda e di seduzione.
Uberto pensa intanto che Capitan Tempesta, volgare e d'animo collerico, non è adatto alla sua graziosa servetta, così scatta in lui un moto di pentimento, vivendo un dilemma che non sa se attribuire all'amore o alla pietà che prova per la giovane donna. Emerge qui una seconda voce, quasi freudiana, che è quella dell'inconscio di Uberto, il quale si interroga sul proprio sentimento in un altro aspetto estremamente moderno. Egli è innamorato della donna, ma allo stesso tempo sa bene che per i rigidi canoni dell'epoca è impossibile che un nobile sposi la sua serva, nel frattempo ha paura di vivere per tutta la vita nel rimpianto di averla persa.
Sarà la gelosia a portare gli intermezzi verso lo scioglimento e al lieto fine, con Uberto che decide di sposare Serpina per non vederla andar via con quell'uomo che non ritiene adatto a lei. Nonostante Vespone riveli la sua vera identità al padrone, quest'ultimo si è ormai lasciato andare alla tenerezza, felice per come sono andate le cose e l'opera si conclude con la famosa frase di Serpina: "E di serva divenni io già padrona".

L'importanza che ebbero questi intermezzi nella storia della musica si può ben capire negli anni della pubblicazione della Encyclopédie di Diderot e d'Alembert, quando a Parigi La serva padrona suscitava un acceso dibattito sul primato della musica italiana o di quella francese; gli illuministi francesi, ed in particolare il filosofo Jean-Jacques Rousseau, che si occupava della parte musicale, si schieravano apertamente a favore dell'opera italiana, esaltandone quella naturalezza e quella vitalità che sono proprie del capolavoro di Pergolesi. Scriveva inoltre Rousseau consigliando i giovani compositori di ascoltare: i capolavori di Leo, di Durante, di Jommelli, di Pergolesi. Se i tuoi occhi si riempiono di lacrime, se senti il tuo cuore palpitare, se ti agitano dei fremiti, se ti senti soffocare nei tuoi slanci, prendi il Metastasio e lavora: il suo genio riscalderà il tuo e tu creerai sul suo esempio.

Lo frate 'nnamorato

Il desiderio del comico nel teatro settecentesco non era confinato solamente agli intermezzi, infatti si sviluppò anche grazie alle commedie per musica, opere buffe che ebbero fortuna non solo a Napoli e in Italia ma anche in Europa, a Vienna in particolare.
A Napoli la commedia musicale nacque molto presto, nel primo decennio del secolo, in concomitanza dunque con gli intermezzi. Questi due generi sono però nettamente diversi, basti pensare che gli intermezzi sono un diversivo rispetto al dramma per musica, mentre la commedia è un genere indipendente dal dramma serio. Se gli intermezzi necessitano dell'opera seria e sono ad essa legati, la commedia è invece del tutto autonoma e costituiva un notevole impegno sia per il compositore che per il librettista, come per esempio Lo frate 'nnamorato di Pergolesi, composto nel 1732.

La commedia, su libretto di Gennaro Antonio Federico, andò in scena durante il carnevale del 1734 al teatro dei Fiorentini a Napoli, la sede principale di questo genere, così come il San Bartolomeo prima e il San Carlo poi erano le sedi adibite alla rappresentazione del dramma serio per musica.
L'opera è divisa in tre atti e presenta una notevole pluralità di personaggi, che sono ben nove a differenza dei sei del dramma serio. La partitura è il capolavoro più importante di Pergolesi dopo La serva padrona, anche in questo caso frutto della collaborazione con il talentuoso drammaturgo Federico, che qui più che mai seppe ritrarre una serie di personalità grazie ai vari personaggi, disposti lungo una scala sociale ben precisa che dai gradi più bassi arriva sino alla ricca borghesia. In tal modo il librettista offrì a Pergolesi la possibilità di esprimere una varietà di accenti musicali, riuscendo a far coesistere diversi registri.
La vicenda si svolge a Capodimonte, una collina sopra Napoli, luogo di villeggiatura dove la vita cittadina è sospesa, rendendo l'ambientazione quasi bucolica. La trama ruota attorno ad una serie di matrimoni progettati per convenienza sociale da Carlo, ricco borghese romano, e Marcaniello, anziano popolano napoletano, tuttavia senza il consenso delle dirette interessate.
Lugrezia, figlia di Marcaniello, dovrebbe maritarsi con Carlo, mentre Marcaniello vorrebbe per sé e per suo figlio Don Pietro le nipoti di Carlo, Nina e Nena, orfane dei genitori. Don Pietro è un personaggio particolarmente riuscito, vero e proprio dandy sopra le righe che dovrebbe sposare Nena ma che concupisce con due serve, Vannella e Cardella. Il raddoppiamento della figura della serva è un meccanismo tipico del teatro comico che serve ad offrire allo spettatore una varietà di sfaccettature e personalità più ampia ma non necessaria. Il cast e il ricorrente ricorso a scene cantate allungano notevolmente la durata della commedia, il cui successo, rispetto a La serva padrona fu confinato alla città di Napoli per il prevalere del dialetto, di musiche e atmosfere tipicamente partenopee.
Alla fine nessuna delle nozze programmate va a buon fine in quanto sia Lugrezia che Nena e Nina sono innamorate di un giovane, Ascanio, il "fratello innamorato" figlio adottivo di Marcaniello che crea scompiglio nella vicenda in quanto tutte si invaghiscono di lui. Ascanio, dal carattere inquieto e tormentato, dall'interiorità simile ai personaggi del dramma serio, ricambia il sentimento per Lugrezia, ma è trattenuto dal sentirsi come un fratello per lei, inoltre è interessato anche da Nena e Nina. Lugrezia esplode così in un moto di gelosia.
Lo scioglimento dei complessi intrecci amorosi avviene nel terzo e ultimo atto, il più breve, nel quale si scopre che Ascanio altri non è che il fratello di Nena e Nina, per questo, dichiara, se ne era innamorato. Ascanio è infatti il figlio del fratello di Carlo, rapito dalla famiglia quando ancora in fasce, poi ritrovato e accudito da Marcaniello. Si tratta del fortunato meccanismo della agnizione, che avviene solitamente nel finale e consiste nel riconoscimento della vera identità di una persona, utilizzato di frequente nelle trame delle commedie di questi anni, basti pensare anche a La buona figliuola di Niccolò Piccinni.
Ascanio può allora sposare Lugrezia, mentre i tre spasimanti originari, ossia Carlo, Marcaniello e Don Pietro, si rassegnano a rimanere soli.

Ritratto di Pergolesi datato intorno al 1733.

Nel maggio 1734 Carlo di Borbone, che farà costruire il teatro San Carlo, fece il suo ingresso a Napoli per essere incoronato re. Gli austriaci dovettero abbandonare la città, così gran parte dell'aristocrazia asburgica che aveva sostenuto la carriera di Pergolesi trovò rifugio a Roma, dove si recò anche il compositore, che l'anno seguente ebbe modo di debuttare con un dramma per musica, L'Olimpiade, su libretto di Metastasio. Nonostante un allestimento semplice e inadeguato rispetto al valore musicale, elementi che causarono l'iniziale insuccesso, l'opera sarà poi considerata una delle più importanti nel catalogo del compositore, apprezzata da numerosi critici fra cui il francese Stendhal. L'ambiente romano, disorganizzato in ambito teatrale, insieme all'aggravarsi delle precarie condizioni di salute, costrinsero Pergolesi a fare ritorno a Napoli per poi trasferirsi a Pozzuoli in cerca di un clima sereno.
Significative sono in questi anni le sue composizioni sacre, che comprendono circa una dozzina di pezzi, le quali danno voce ad un'esperienza soggettiva del sentimento religioso, affettuosa e molto partecipativa, come se il musicista sentisse di essere ormai prossimo alla morte. Testimonianza ne sono i numerosi errori, parti solamente abbozzate e una certa fretta nello scrivere, proprio perché Pergolesi sapeva di avere poco tempo dinanzi a sé. Nacquero così il Salve Regina e soprattutto lo Stabat Mater, entrambi del 1736 e dal grandissimo successo.
Secondo la tradizione lo Stabat Mater, che verrà ripreso anche da Bach, sarebbe stato concluso proprio negli ultimi istanti di vita del compositore. Commissionata per sostituire lo Stabat Mater di Alessandro Scarlatti datato 1724 e tradizionalmente eseguito nel periodo quaresimale, la partitura di Pergolesi denota come il gusto musicale nella Napoli settecentesca cambiasse velocemente a distanza di poco tempo, con la singolare originalità espressiva di Pergolesi che faceva apparire arcaico uno stile di una decina di anni prima.

Polittico della Misericordia (dettaglio) - Piero della Francesca - 1445 circa - Borgo Sansepolcro, Museo civico

Ritiratosi in una celletta del convento dei frati cappuccini di Pozzuoli, Pergolesi scrisse febbrilmente una tra le pagini più struggenti e sublimi della storia della musica sacra, quasi partecipe, con le sue atroci sofferenze fisiche, del dolore più grande che si possa provare, quello di una madre che vede morire il proprio figlio.
Per due voci, soprano e contralto, orchestra d'archi e basso continuo, la composizione appare come una riflessione sulla fragilità della vita umana al cospetto della morte, una preghiera rivolta in prima persona dal musicista morente a Maria, meditando sul suo dolore ai piedi della croce. Stroncato dalla gravissima forma di tubercolosi ossea che lo affliggeva, Pergolesi si spense a ventisei anni, ma la sua intramontabile leggenda, alimentata in cinque anni di straordinaria parabola artistica, era solamente all'inizio.

Bibliografia

  • L'opera comica napoletana (1709-1749) - Stefano Capone - Liguori editore
  • Il racconto della musica europea - Raffaele Mellace - Carocci editore
  • L'opera italiana nel '700 - Piero Weiss; a cura di Raffaele Mellace - Casa editrice Astrolabio
  • R. Mellace, Gli intermezzi di Pergolesi e di Hasse: due produzioni a confronto, in «Studi pergolesiani» 5, a cura di C. Fertonani e C. Toscani, 2006, pp. 187-210.
  • G. Staffieri, L’opera italiana. Dalle origini alle riforme del secolo dei Lumi (1590-1790), Roma, Carocci, 2014, pp. 298-312, 321-339