Leonardo Vinci

Compositore misterioso e poco noto, Leonardo Vinci, nato in provincia di Crotone intorno all'anno 1696, è stato insieme a Domenico SarroJohann Adolf Hasse e per ultimo Niccolò Jommelli uno dei grandi esponenti della scuola musicale napoletana settecentesca.
Grazie a lui la sensibilità musicale si distaccò nettamente dallo stile seicentesco per avvicinarsi all'estetica dello Stile galante, un genere affermatosi nel corso del Settecento che tornò alla semplicità classica a seguito della complessità del tardo Barocco. Si tratta di una musica estremamente moderna che coincide con l'affermarsi delle idee dell'Illuminismo; un'esperienza leggera e sensoriale, che ha nell'immediatezza e nella leggerezza della partitura il carattere distintivo.
La musica settecentesca, chiara e trasparente, era finalizzata ad esprimere la grazia, un concetto estetico soave e delicato che dominerà gran parte del secolo in concomitanza con la produzione di Pietro Metastasio, grande librettista che amava le composizioni di Vinci, ritenendole le più vicine alla sua idea musicale.
L'ultima opera di Vinci, la più importante, fu l'Artaserse, che andò in scena a Roma nel febbraio 1730, qualche mese prima della morte improvvisa del compositore in circostanze mai del tutto chiare.

Artaserse

Rappresentata in occasione del carnevale dell'anno 1730, è l'opera che rimase impressa nell'anima del librettista Metastasio, il quale lasciò l'Italia nella primavera dello stesso anno, portandosi con sé nella memoria le note del dramma, anche perché profondamente colpito dalla notizia della scomparsa dell'amico.
Storicamente, l'Artaserse è il libretto più fortunato di Metastasio, che alcuni musicisti, tra cui Hasse, misero in scena più volte.
Il cast romano era completamente maschile, perché a Roma le donne non potevano cantare a teatro. Spiccano così le figure dei grandi castrati, voci di primaria importanza nel XVIII secolo, si pensi a Farinelli, in quanto il gusto ricadeva sui toni alti e acuti.
Sia la prima che la seconda donna erano dunque interpretati, nel dramma, da due castrati, vale a dire Giacinto Fontana detto "Farfallino" nel ruolo di Mandane, sorella di Artaserse e amante di Arbace, amico del re, e Giuseppe Appiani nel ruolo di Semira, sorella di Arbace e amante di Artaserse. Se il personaggio del re, da cui prende il titolo il dramma, è a parte rispetto agli altri, i ruoli di primo e secondo uomo sono quelli di Arbace, interpretato dal celebre castrato Giovanni Carestini, e Artabano, padre di Arbace.

Personaggi

  • Artaserse: re di Persia amico di Arbace e amante di Semira.
  • Mandane: prima donna sorella di Artaserse e amante di Arbace, interpretata dal signor Giacinto Fontana.
  • Arbace: primo uomo amico di Artaserse e amante di Mandane, interpretato dal signor Giovanni Carestini.
  • Artabano: secondo uomo prefetto delle guardie reali, padre di Arbace e di Semira.
  • Semira: seconda donna sorella di Arbace e amante di Artaserse, interpretata dal signor Giuseppe Appiani.

Il castrato Carestini, acerrimo rivale di Farinelli.

Atto primo

La trama del dramma è incentrata su una congiura di palazzo: Artabano è un uomo ambizioso che sta tramando di conquistare il potere a scapito di Artaserse dopo aver ucciso il padre di quest'ultimo. L'ostacolo per Artabano risulta essere però il primo uomo, suo figlio Arbace.
Nell'opera si contrappongono i profili ideali della sincerità e l'astuzia, dell'innocenza e dell'inganno. Arbace è l'innocente, diviso e combattuto fra amicizia e amor paterno, ruolo perfettamente interpretato dalla voce del castrato, che ben rifletteva un profilo morale positivo e spesso fragile, vittima degli altri. Artabano, personaggio malvagio e negativo, è invece interpretato dalla voce di un tenore.
L'aria che conclude la seconda scena del primo atto ben esprime i turbamenti di Arbace, che prevede tutta l'angoscia a cui andranno incontro l'amante Mandane, il suo amico Artaserse, ma anche lo stesso Artabano:

Fra cento affanni e cento
palpito, tremo e sento
che freddo dalle vene
fugge il mio sangue al cor.

Prevedo del mio bene
il barbaro martiro
e la virtù sospiro
che perse il genitor.

Quando Artaserse scopre che suo padre Serse è stato ucciso comincia ad indagare sul colpevole. Il re è raggiunto da Semira, la sua innamorata che vuole stargli vicino, tuttavia Artaserse sente il bisogno di rimanere solo, come canta nell'aria della terza scena, in un'atmosfera delicata la cui bellezza melodica di Vinci, nonché la voce del castrato, ben esprimono il turbamento del personaggio e la propria condizione di vittima:

Per pietà, bell'idol mio,
non mi dir ch'io sono ingrato,
infelice e sventurato
abbastanza il ciel mi fa.

Se fedele a te son io,
se mi struggo a' tuoi bei lumi,
sallo amor, lo sanno i numi,
il mio core, il tuo lo sa.

La scena si sposta poi in un interno, nella reggia, quando Artaserse viene a conoscenza che anche suo fratello Dario è stato ucciso. Divenuto sovrano all'improvviso e in circostanze dolorose, Artaserse manifesta nuovamente, nell'aria della scena XI, la necessità di essere lasciato in pace nella sua malinconia, mentre riflette su quanto accaduto, sulla sua condizione così particolare di giudice, amico e amante, ma anche su chi possa aver compiuto due omicidi tanto efferati. Il re incarna benissimo la figura dilemmatica del dramma, elemento ricorrente nel teatro metastasiano:

Deh respirar lasciatemi
qualche momento in pace;
capace di risolvere
la mia ragion non è.

Mi trovo in un istante
giudice, amico, amante
e delinquente e re.

Le circostanze provocate dalla cattiveria e dalla sete di potere di Artabano portano il figlio Arbace, nel finale del primo atto, ad essere accusato di colpevolezza. Tutti i sospetti ricadono su di lui, lasciato solo con la sua innocenza che lo porta allo struggersi nel proprio dolore e nella sua umiliazione. Nell'aria si lamenta con gli dei per la prova troppo dura a cui lo hanno sottoposto, paragonando la sua malinconica sorte ad un viaggio impossibile per mare in un canto di dolore carico di virtuosismo da parte del castrato Carestini, che qui ha la sua parte principale:

Vo solcando un mar crudele,
senza vele e senza sarte;
freme l'onda, il ciel s'imbruna,
cresce il vento e manca l'arte
e il voler della fortuna
son costretto a seguitar.

Infelice, in questo stato
son da tutti abbandonato;
meco sola è l'innocenza
che mi porta a naufragar.

Atto secondo

Introduce il secondo atto un dialogo fra Artaserse, molto triste per quanto accaduto, e Artabano, sino a quando nella seconda scena viene portato sul palco Arbace, che è stato arrestato. Rimangono soli padre e figlio, dando vita ad un recitativo molto interessante per lo sviluppo della trama e carico di riflessioni sulla malvagità, la giustizia e la morale. Artabano propone la fuga ad Arbace, temendo che finisca per cedere svelando il vero colpevole. Progetta addirittura di uccidere Artaserse per mettere sul trono Arbace, inorridito dal piano brutale del genitore.
Sarà proprio Artabano a condannare suo figlio a morte quando gli si rivolgono tutte le accuse, ma Arbace non si difende e decide di rimanere in silenzio per amor paterno. I due si abbracciano e nella scena XI Arbace recita un'aria molto commovente mentre va incontro alla definitiva condanna che alla fine sarà evitata. Viene messa in risalto tutta la nobiltà del suo animo che si preoccupa, anche in un momento così drammatico, per il futuro a cui andrà incontro il padre, per l'amata Mandane che ora non può che essere arrabbiata con lui, infine per il suo re e amico Artaserse. La grande invenzione di Metastasio è quella dell'eroe disposto a sacrificarsi in silenzio, custodendo la verità, in nome degli affetti e della propria patria:

Per quel paterno amplesso,
per questo estremo addio,
conservami te stesso,
placami l'idol mio,
difendimi il mio re.

Vado a morir beato,
se della Persia il fato
tutto si sfoga in me.

Quest'aria, che segna una svolta drammatica notevole, paragonabile allo stile di William Shakespeare, è seguita subito dopo, nella scena XII, da un'aria di grande furore in cui la prima donna, Mandane, si scaglia in un moto di rabbia contro Artabano. Per manifestare il rammarico e il moto violento della donna Vinci utilizza, come farà raramente, gli strumenti a fiato, che ben evidenziano la potenza e l'impeto a livello musicale:

Va' tra le selve ircane
barbaro genitore;
fiera di te peggiore,
mostro peggior non v'è.

Quanto di reo produce
l'Africa al sol vicina,
l'inospita marina,
tutto s'aduna in te.

L'ultima aria del secondo atto, nella scena XV, è affidata all'antagonista, Artabano, una scelta inconsueta con la quale il librettista vuole mettere ancora una volta in risalto il rapporto stretto fra padre e figlio, filo conduttore di tutto il dramma. Se Arbace ha infatti chiuso il primo atto, adesso è il padre a cui viene affidato il compito di farlo per il secondo, decisione per la quale viene sacrificata la voce della prima donna, e quindi di un importante castrato come il Farfallino, in nome di quello che è il vero motivo della tragedia.
Artabano è rimasto solo e manifesta il proprio pensiero, che non appare più così malvagio. La situazione a cui è andato incontro è stata dolorosa anche per lui e quasi sembra pentirsi per poi riprendere coraggio. Per lui l'unica volontà è adesso quella di salvare suo figlio innocente dalla morte e comincia a cantare un'aria di paragone per esprimere il suo stato d'animo. Narra così di un pastore, sorpreso e spaventato nel vedere un fulmine scagliarsi nella campagna, che cade a terra sconvolto per poi rialzarsi quasi rincuorato dal fatto che non sia accaduto nulla, sorridendo del suo vano timore, rimettendosi subito alla guida del proprio gregge. Lo stesso è accaduto ad Artabano, il quale ha ancora la possibilità di non vedere morire suo figlio nonché di ottenere l'agognato sogno di potere:

Così stupisce e cade
pallido e smorto in viso
al fulmine improviso
l'attonito pastor.

Ma quando poi s'avvede
del vano suo spavento,
sorge, respira e riede
a numerar l'armento
disperso dal timor.

Atto terzo

In apertura dell'ultimo atto il contesto è quello di una prigione, dunque dal tono cupo, dove Arbace intona una breve aria struggente e riflessiva costituita da pochi versi, quella che nel linguaggio tecnico è nota come "cavatina". Nella sua estrema semplicità testuale e musicale, questa cavatina è di primaria importanza perché apre l'atto ponendo ancora una volta l'attenzione alla prospettiva di Arbace e quindi alla voce del castrato, vittima innocente e abbandonata:

Perché tarda è mai la morte,
quando è termine al martir?

A chi vive in lieta sorte
è sollecito il morir.

Giunge poi sulla scena Artaserse che offre all'amico la possibilità di fuggire, ma nell'animo di Arbace si manifesta un dissidio in quanto, così facendo, non avrebbe modo di dimostrare la propria innocenza, perché chi scappa si autodefinisce colpevole. Artaserse ordina al suo suddito di seguirlo e nel finale della scena Arbace intona l'aria, ancora una volta di paragone. Sia in apertura che a conclusione il protagonista è il primo uomo, dunque il famoso castrato Carestini. La condizione di Arbace viene in questo caso paragonata poeticamente a quella dell'acqua, in particolare ad un'onda divisa dal mare a cui vuole fare ritorno ad ogni costo perché quello è il proprio destino. L'aria è una delle più celebri del repertorio di Vinci, qui in grado, a livello musicale, di riprodurre anche sonoramente l'andamento dell'acqua:

L'onda dal mar divisa
bagna la valle, il monte,
va passaggiera in fiume;
va prigioniera in fonte.
Mormora sempre e geme
fin che non torna al mar.

Al mar dov'ella nacque,
dove acquistò gli umori,
dove dai lunghi errori
spera di riposar.

Presso la prigione giunge poi Artabano per portare via suo figlio, ma non trovandolo inizia a dubitare della riuscita del proprio piano, manifestando timore per la possibilità che Arbace sia già stato ucciso. Paradossalmente il punto debole dell'antagonista si rivela essere l'affetto che lo lega al figlio, nonostante la cattiva sorte a cui lo ha costretto sia solamente colpa sua. L'aria della quarta scena esprime il moto di pentimento e di sofferenza da parte del padre che qui sembra cedere come già aveva fatto nel finale del secondo atto:

Figlio se più non vivi,
morrò; ma del mio fato
farò che un re svenato
preceda messaggier.

Infin che il padre arrivi
fa' che sospenda il remo
colà sul guado estremo
il pallido nocchier.

A seguito di uno dei rari duetti, quello fra la prima donna Mandane e il primo uomo Arbace, ci si avvia verso lo scioglimento della vicenda del dramma, mentre la scena si sposta in un luogo magnifico dove Artaserse viene incoronato re. Artabano lo invita a bere da una tazza per fare giuramento e fra sé annuncia che il sovrano berrà la morte in quanto all'interno vi è del veleno. Appena prima di bere Artaserse viene improvvisamente interrotto da Semira, che annuncia una sommossa di palazzo.
Nell'ultima scena sopraggiunge Arbace, che viene perdonato dal suo re, il quale lo invita a confermare la propria innocenza bevendo dalla coppa. Artabano, vedendo il figlio disposto a bere il veleno al posto di Artaserse, si precipita nel fermarlo. È così proprio l'amor paterno a svelare il vero colpevole, Artabano, che in un moto di rabbia sguaina la spada scagliandosi contro il sovrano. Arbace impone al padre di fermarsi, perché dichiara di essere pronto a bere il contenuto della coppa se Artaserse verrà ucciso. Si tratta di una scena teatrale molto forte e concitata, carica di tensione, nella quale viene messa in risalto la levatura morale di Arbace, il quale, quando il padre desiste e Artaserse annuncia la condanna, supplica il proprio re di risparmiarlo. Artaserse, per amore dell'amico e di Semira, mostra la sua clemenza e ripiega sull'esilio come pena per Artabano.
L'aria conclusiva unisce tutti i protagonisti, che cantano sul palco la grandezza del re celebrando il suo regno futuro:

Giusto re, la Persia adora
la clemenza assisa in trono,
quando premia col perdono
d'un eroe la fedeltà.

La giustizia è bella allora
che compagna ha la pietà.

Erighetta e Don Chilone: L'ammalato immaginario

Interessante è anche l'analisi della produzione comica di Vinci, in particolare di quegli intermezzi che andavano in scena fra un atto e l'altro del dramma costituendo una caratteristica unica nel teatro settecentesco. Lo spettacolo di questi anni era infatti letteralmente diviso fra la narrazione seria del melodramma e quella degli intermezzi, finalizzati ad allietare il pubblico in sala. Diversi furono gli autori che si dedicarono a questo genere, fra cui, oltre a Vinci, anche Sarro e Hasse, ma soprattutto Giovanni Battista Pergolesi, che con La Serva padrona creò un vero modello di riferimento.
Composti per alleggerire la tensione del dramma e soddisfare l'esigenza comica degli spettatori, gli intermezzi hanno come elemento più peculiare quello della fruizione insieme alla tragedia, in un'alternanza di emozioni contrastanti che creavano anche una suspense notevole. Se gli intermezzi erano tre, infatti, l'ultimo non andava in scena dopo il gran finale dell'opera, bensì immediatamente prima dell'ultima scena e dunque dello scioglimento della vicenda.
Spesso i titoli degli intermezzi prendono il nome dai due cantanti protagonisti, un personaggio femminile e uno maschile, quest'ultimo dalla voce grave, che in quel tempo era considerata meno rilevante perché il gusto ricadeva sulla voce acuta. Ad ognuno dei due personaggi è solitamente riservata, nel singolo intermezzo, un'aria, che poteva essere una cavatina, per poi concludere la scena con un duetto.
I testi e la musica degli intermezzi sono strettamente legati alle capacità attoriali dei cantanti, con il libretto caratterizzato da numerose allusioni e da un linguaggio quotidiano.
Erighetta e Don Chilone, noto anche come L'ammalato immaginario, sono gli intermezzi dell'Ermelinda, dramma per musica andato in scena nel 1726 al teatro San Bartolomeo di Napoli.
Il ruolo femminile è interpretato da Celeste Resse, soprano, mentre quello maschile da Gioacchino Corrado, basso, che erano la coppia più celebre della produzione di intermezzi sulla scena napoletana.
L'intermezzo primo comincia con l'aria della donna per proseguire con il suo recitativo sino a concludersi con il duetto fra i due personaggi. Il ruolo di lui è dunque ancora marginale nella prima parte. L'intermezzo secondo presenta invece le classiche caratteristiche di questo genere comico, con le due arie per i protagonisti e infine il duetto. L'intermezzo terzo offre infine solo un duetto, rinunciando ad ogni intervento solistico.
I personaggi di questo genere buffo sono caricaturali, simili a quelli della commedia dell'arte. In questo caso la donna si presenta lamentandosi della propria condizione di vedova, affermando di volersi risposare al più presto perché ancora giovane e che ogni uomo le può andar bene. Vinci conferisce alla prima aria un tono lacrimevole, finalizzato ad esprimere il lamento, ma allo stesso tempo capace di far emergere gli aspetti più divertenti del personaggio femminile, per la cui parte, più che il canto, erano fondamentali le capacità di recitazione.
Don Chilone viene presentato dalla donna come l'uomo perfetto da sposare, perché è un malato immaginario, ipocondriaco, per di più senza figli a carico e abbastanza ricco. Si nota subito la vena parodistica, con la cantante che afferma che è proprio la malattia di lui a potersi rivelare la felicità per lei.
La protagonista propone allora il matrimonio, convincendolo di aver bisogno di una moglie che lo assista nel momento del bisogno. Il piano di lei prevede il suo travestimento nella parte del medico, in un evidente riferimento alla commedia dell'arte. Comincia allora a visitarlo iniziando ad utilizzare termini forbiti e in latino, al tempo la lingua della scienza. Nell'aria Erighetta espone la ricetta a Don Chilone, ormai persuaso di sposarsi.
I protagonisti si sposano, con Don Chilone che non appena prende la mano di Erighetta afferma di sentirsi già meglio. La serenità coniugale dura però molto poco, in quanto la donna mostra di essersi pentita di quanto ha fatto, dichiarando di voler fuggire. Pur rimanendo sposati, dunque legati da un "contratto", i due si separano. Lei è così finalmente libera dalla sfavorevole condizione di vedova ma anche dal ruolo di badante del marito, lui invece, essendo il personaggio sciocco, non ha guadagnato nulla e si chiude nuovamente nella sua inguaribile ipocondria dichiarando nel finale di sentirsi morire.