Domenico Sarro

La città di Napoli ricoprì nel Settecento un ruolo di primaria importanza in ambito musicale, ergendosi con i suoi quattro conservatori a centro operistico e culturale in grado di influenzare l'Europa intera.
A livello storico e politico la città visse profondi cambiamenti che vanno dalla dominazione spagnola a quella austriaca per arrivare a quella borbonica.
Importante è porre l'attenzione al periodo della dominazione asburgica, in particolare il ventennio che va dal 1713 al 1734 circa, quando ebbero modo di affermarsi numerosi compositori in un contesto sempre più prestigioso.
Il teatro di questi anni era caratterizzato da un doppio spettacolo, vale a dire il melodramma e gli intermezzi, dunque dal dramma per musica interrotto nelle pause da un breve spettacolo comico volto ad allietare il pubblico in sala. Vari autori si dedicarono a questo genere, fra cui Leonardo VinciJohann Adolf Hasse e Niccolò Jommelli, di cui l'esempio più celebre è però La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi.

Furono molti i compositori affermatesi nel contesto napoletano e provenienti dalla Puglia, si pensi a Leonardo Leo, Niccolò Piccinni e Giovanni Paisiello, tra cui anche una figura meno nota nel panorama operistico del XVIII secolo ma di notevole interesse quale Domenico Natale Sarro, nato a Trani il 24 dicembre 1669, data da cui prese il suo secondo nome.
Artista precoce e lavoratore instancabile contemporaneo di Vivaldi, Sarro si formò al Conservatorio di Sant'Onofrio a Napoli, facendosi notare a inizio Settecento nella Napoli del dominio spagnolo giunto ormai al tramonto.
Nel 1701 ottenne la prima commissione di cui si ha testimonianza, partecipando ad un concorso per la Cappella Reale, ossia la struttura ecclesiastica di Palazzo Reale. Il concorso era stato bandito per sostituire come maestro di cappella Alessandro Scarlatti, un compositore il cui successo ormai conclamato lo portava ad assentarsi spesso da Napoli. La scelta non fu facile e dopo un anno di attesa la nomina passò a Gaetano Veneziano, tuttavia Sarro venne decretato vice maestro, una carica prima inesistente e istituita appositamente per lui, ancora giovanissimo.
Nel 1706, ultimo anno di dominazione spagnola, Sarro mise in scena per la prima volta un'opera per il teatro San Bartolomeo, l'illustre grande teatro seicentesco poi sostituito dal San Carlo.
L'anno seguente entrarono gli austriaci a Napoli, sconvolgimento politico che portò anche a rivedere le cariche musicali come quella di Sarro, il quale fu abbastanza sfortunato se si considera anche il simultaneo ritorno sulla scena napoletana di Scarlatti.
La più antica composizione di Sarro è però una cantata sul tema del Giudizio di Paride dedicata nel 1701 alle nozze di re Filippo V con Maria Luisa di Savoia.

Filippo V, nipote di Luigi XIV, primo re di Spagna della dinastia Borbone.

Si nota chiaramente come la produzione musicale di Sarro tocchi tutti i generi della musica vocale, ossia chiesa, teatro e camera, in particolare le sue vette a livello di committenza con il concorso per la Real Cappella, l'opera al teatro San Bartolomeo nonché la cantata per le nozze del sovrano.
La carriera di Sarro si sviluppò nell'arco dell'intero ventennio austriaco su Napoli, riuscendo a ritornare nel suo ruolo di vice maestro della Real Cappella solamente nel 1725, quando morì Alessandro Scarlatti, come se l'evento politico dell'ascesa asburgica avesse spostato in avanti di un quarto di secolo il suo destino. Divenne poi maestro nel 1737, alla soglia dei sessant'anni.
Quest'anno fu significativo per una delle sue commissioni più importanti, l'opera Achille in Sciro su libretto di Pietro Metastasio con cui il 4 novembre inaugurò per volere di Carlo di Borbone, nuovo re della città, il teatro San Carlo nel giorno a lui dedicato. In precedenza Sarro aveva già inaugurato il teatro Argentina di Roma, in quelli che furono due eventi alquanto significativi che donarono immortalità al nome del musicista venuto a mancare nel 1744.

Carlo di Borbone, primogenito delle seconde nozze di Filippo V.

Didone abbandonata

Dramma per musica in tre atti su libretto di Metastasio, composto per essere rappresentato al teatro San Bartolomeo di Napoli in occasione del carnevale del 1724. La stagione principale dei teatri italiani era quella di carnevale, intesa come una stagione legata all'anno liturgico. Non si poteva infatti fare teatro durante la quaresima e l'avvento, quindi rimaneva il periodo di carnevale, che iniziava subito dopo l'avvento per concludersi alla vigilia della quaresima.

Il librettista, Metastasio, era all'epoca un giovane poeta di teatro giunto a Napoli da Roma, qui al suo esordio ufficiale. Sarro era invece più noto avendo alle spalle vent'anni di lavoro.
Protagonisti del dramma sono Didone, regina di Cartagine, interpretata dal soprano Marianna Benti Bulgarelli detta "La Romanina" per le sue origini, ed Enea, ruolo ricoperto dal cantante castrato Nicolò Grimaldi.

Interno del teatro San Bartolomeo.

Il castrato era una figura fondamentale in questo secolo, si pensi a Farinelli, in quanto il gusto ricadeva sulla voce acuta, i cui ruoli sono oggi ricoperti da cantanti donne. La mutilazione dei testicoli avveniva prima della pubertà in modo da conservare un registro acuto della voce anche in età adulta, operazione illecita che però rappresentava l'unica speranza di futuro per alcuni bambini di umili origini. Il canto del castrato non corrisponde alla voce bianca, quella dei fanciulli, perché, pur rimanendo alta, si aggiungeva di quella potenza tipica di un corpo adulto così da dare vita ad un timbro particolarissimo che oggi non possiamo riascoltare in quanto al tempo non esistevano mezzi di registrazione.

Ritratto di Carlo Broschi, in arte Farinelli, datato 1753.

Nella Didone abbandonata, come in gran parte dei drammi di questo periodo, le prime quattro parti, ossia primo uomo, prima donna, secondo uomo e seconda donna, erano interpretate da voci femminili perché tale era il gusto dell'epoca.
I cantanti avevano un ruolo centrale in quanto divenivano veri e propri coautori dei drammi: le loro caratteristiche vocali e le loro capacità attoriali davano infatti un'impronta decisiva all'opera e alla partitura. Metastasio, che fu legato da una relazione con La Romanina, si basò su di lei, che ben conosceva, per la stesura del dramma, costruendo le parti a partire dal suo virtuosismo e dalle sue doti di recitazione.

Il librettista Pietro Metastasio.

Il contesto dell'opera è quello di Cartagine, dove la regina Didone si innamora di Enea dopo averlo soccorso insieme al suo equipaggio. L'eroe deve però lasciare la città, per volontà del fato, recandosi sulle coste del Lazio dove fonderà Roma.
Pur ricambiando il sentimento per Didone, Enea sente il dovere di partire per l'Italia, ma la regina cerca di convincerlo a rimanere con lei. Il futuro fondatore di Roma è combattuto sul da farsi, soprattutto a causa dell'arrivo di Iarba, re dei Mori, che chiede la mano di Didone presentandosi a lei in incognito come Arbace, emissario del sovrano, per vedere quale sia la risposta della regina, la quale dichiara di amare solo Enea e di volerlo sposare.
Ogni atto del dramma si basa sul dualismo recitativo-aria: il recitativo è la parte che contiene i monologhi o i dialoghi fra i protagonisti, nel quale la musica ha meno rilevanza, mentre l'aria è quella parte dello spettacolo, che conclude i recitativi, dove avviene un capovolgimento degli equilibri, con la musica che prende il sopravvento a scapito della parola, che si limita a pochi versi. La potenza espressiva e la capacità di esprimere i sentimenti dei personaggi è in questo caso affidata alla musica.
Di estrema importanza è la prima aria cantata dalla prima donna, Didone, che ben riflette il carattere della protagonista dell'opera, donna di potere ed amante perdutamente innamorata. Ella denota la sicurezza interiore di una regina che intende comandare sul proprio regno, inseguendo la gloria politica, ma anche sul proprio cuore, dunque sul campo pubblico e su quello più intimo e privato:

Son regina e sono amante
e l'impero io sola voglio
del mio soglio e del mio cor.

Darmi legge invan pretende
chi l'arbitrio a me contende
della gloria e dell'amor.

Un'altra aria fondamentale è quella della scena XI del primo atto, in cui a cantare è Selene, la seconda donna, sorella di Didone anch'ella segretamente innamorata di Enea.
Selene, al pari di Didone, parla in prima persona dei suoi sentimenti, ma diversamente dalla sorella sembra pronunciare una sentenza, riflettendo fra sé in modo quasi distaccato e disilluso. Metastasio, in questo suo esordio da librettista, utilizza un linguaggio relativamente semplice e colloquiale, diretto, tutt'altro che ricercato e sublime.
L'aria è anticipata, nel recitativo, da una riflessione sull'amore, visto come un desiderio irrazionale e a volte incomprensibile che nasce in noi quando meno ce lo aspettiamo, tema che prosegue nell'aria:

Ogni amator suppone
che della sua ferita
sia la beltà cagione
ma la beltà non è.

È un bel desio che nasce
allor che men s'aspetta,
si sente che diletta
ma non si sa perché.

Nella scena XVIII, la penultima dell'atto primo, si trova poi un'aria in cui la prima donna, Didone, insorge nella sua sofferenza amorosa, dopo che nel recitativo, in un momento centrale del dramma, era avvenuto un diverbio tra lei ed Enea. La donna è innamorata, ma lui è consapevole di dover partire perché così è stato stabilito dal destino. Didone allora si arrabbia ed esplode nell'aria in un'invettiva che si contrappone decisamente alla prima aria, in quanto la regina, che si rivolge nelle quattro brevissime strofe ad ogni anima che conosce il sentimento dell'amore, appare vulnerabile e insicura perché abbandonata:

Non ha ragione ingrato
un core abandonato
da chi giurogli fé?

Anime innamorate,
se lo provaste mai,
ditelo voi per me.

Perfido tu lo sai
se in premio un tradimento
io meritai da te.

E qual sarà tormento,
anime innamorate,
se questo mio non è!

Alla conclusione del primo atto, nell'ultima scena, Enea canta l'aria che consente al primo uomo di prendersi l'applauso del pubblico quando sulla scena non ci sono più altri personaggi secondari. L'eroe sembra pentirsi e, combattuto se partire o rimanere con l'amata, si rivolge al fato e al padre Anchise. Emerge un profondo dissidio che mostra le sofferenze di entrambe le scelte, ma alla fine la partenza è inevitabile:

Se resto sul lido,
se sciolgo le vele
infido, crudele
mi sento chiamar.

E intanto confuso
nel dubbio funesto,
non parto, non resto
ma provo il martire
che avrei nel partire,
che avrei nel restar.

L'opera si conclude con il suicidio di Didone, come nella classica storia di Virgilio, anche se bisogna dire che nel secolo precedente a Metastasio erano diverse le versioni per le quali la protagonista sopravviveva, non curandosi dunque del modello virgiliano. Generalmente i drammi settecenteschi si concludono con un coro in cui tutti i personaggi si allineano sul palcoscenico prima di prendersi gli applausi. In questo caso, invece, sulla scena rimane solamente Didone, drammaticamente sola poco prima del suicidio, rinunciando a mettersi in salvo mentre Cartagine è in fiamme dopo essere stata saccheggiata per volontà di Iarba.
La donna riflette un'ultima volta prima di compiere l'estremo gesto, che non è descritto dal dramma ma è chiaramente esplicito. Il suo monologo è costituito da uno struggente recitativo intervallato da un'arietta, ossia una piccola aria che nel linguaggio tecnico è nota come "cavatina". Si tratta infatti di quattro versi, estratti dal recitativo, che non compongono però un'aria vera e propria. Il finale, così originale, risulta maggiormente vicino al teatro di parola che a quello musicale, con tutto il protagonismo della prima donna, La Romanina, messo in risalto dalla propria capacità recitativa con cui si conclude l'intero dramma in una malinconica scena finale:

Ah che dissi infelice! A qual eccesso
mi trasse il mio furore.
Oh Dio cresce l'orrore. Ovunque io miro
mi vien la morte e lo spavento in faccia,
trema la regia e di cader minaccia.
Selena, Osmida, ah tutti,
tutti cedeste alla mia sorte infida,
non v'è chi mi soccorra o chi m'uccida.

Vado... Ma dove?... Oh Dio!
Resto... Ma poi, che fo!
Dunque morir dovrò
senza trovar pietà?

E v'è tanta viltà nel petto mio?
No no. Si mora. E l'infedele Enea
abbia nel mio destino
un augurio funesto al suo camino.

Precipiti Cartago,
arda la regia e sia
il cenere di lei la tomba mia.

Morte di Didone - Guercino - 1630 circa - Roma, Galleria Spada

Dorina e Nibbio: L'impresario delle Canarie

Fra un atto e l'altro della Didone abbandonata furono messi in scena durante la prima napoletana del 1724 gli intermezzi Dorina e Nibbio ossia L'impresario delle Canarie, una breve rappresentazione comica, il cui testo è attribuito al Metastasio, finalizzata ad allietare il pubblico in sala.
Composti per alleggerire la tensione del dramma e soddisfare l'esigenza comica degli spettatori, gli intermezzi hanno come elemento più peculiare quello della fruizione insieme alla tragedia, in un'alternanza di emozioni contrastanti che creavano anche una suspense notevole, esperienza tipica del teatro settecentesco. Se gli intermezzi erano tre l'ultimo non andava in scena dopo il gran finale dell'opera, bensì immediatamente prima dell'ultima scena e dunque dello scioglimento della vicenda. Nel caso di Dorina e Nibbio gli intermezzi sono due, interpretati da Gioacchino Corrado e Santa Marchesini.

Spesso i titoli degli intermezzi prendono il nome dai due cantanti protagonisti, un personaggio femminile e uno maschile, quest'ultimo dalla voce grave, che in quel tempo era considerata meno rilevante perché si preferiva la voce acuta. Ad ognuno dei due personaggi è solitamente riservata, nel singolo intermezzo, un'aria, che poteva essere una cavatina, per poi concludere la scena con un duetto.
I testi e la musica degli intermezzi sono strettamente legati alle capacità attoriali dei cantanti, con il libretto caratterizzato da numerose allusioni e da un linguaggio quotidiano.
Gli intermezzi Dorina e Nibbio sono importanti in quanto considerati fra i primi testi metateatrali nella storia del melodramma. Immancabile è la parodia dei personaggi dell'opera seria, topos ricorrente nella produzione di intermezzi, con Metastasio che mise in ridicolo i capricci della cantante Dorina nel tentativo di rivalutare l'importanza del testo, cercando così di mettere in discussione lo strapotere dei cantanti e della musica, alle cui esigenze i librettisti si dovevano sempre adeguare.
Nel primo intermezzo la scena si apre con Dorina che attende trepidante l'arrivo di un impresario straniero, lamentandosi con la cameriera per il repertorio a sua disposizione. Nibbio è l'impresario, vale a dire un intermediario, un mercante di contratti, un organizzatore di spettacoli che per il teatro metteva in gioco soldi e reputazione. Giunto finalmente in scena, propone alla donna un testo per un importante teatro delle isole Canarie. Nibbio deve insistere a lungo per convincere Dorina, riluttante, che scappa fingendo un appuntamento.
Nel secondo intermezzo la donna è impegnata nel provare i vestiti di scena, quando riceve un'altra visita di Nibbio, cominciando a lamentarsi dei guai della professione di cantante. Su richiesta dell'impresario si esibisce poi nella parte di Cleopatra, evidente parodia del dramma serio, nella quale Dorina diviene una sorta di contraltare della Romanina, prima donna nella Didone. Giunto il momento di firmare il contratto, che prevede richieste esorbitanti da parte della cantante, Dorina si tira indietro, sospettando proprio del fatto che Nibbio abbia accettato prontamente tutte le sue condizioni, ma soprattutto perché poco convinta della credibilità dell'impresario.

Intrattenimento musicale - Gaspare Traversi - 1745 circa - Napoli, Museo nazionale di Capodimonte

Achille in Sciro

Opera in tre atti su libretto di Metastasio che inaugurò il teatro San Carlo di Napoli il 4 novembre 1737. Si tratta di un dramma tragicomico che ha per protagonista Achille, il quale viene portato contro la sua volontà dalla madre Teti sull'isola di Sciro a seguito della profezia secondo la quale sarebbe morto nel caso avesse preso parte alla guerra di Troia. Sull'isola Achille viene nascosto sotto mentite spoglie, travestito da donna, vivendo come ancella della principessa Deidamia, la figlia del re di Sciro Licomede innamorata di Achille.

Come appariva il teatro San Carlo nel periodo della sua inaugurazione.

Quando tutto sembra procedere senza intoppi, giunge Ulisse in cerca di Achille, con l'eroe dell'Odissea di Omero che si inventa un inganno per smascherare il protagonista del dramma. Sapendo che Achille è trasvestito da donna, Ulisse al suo arrivo offre in dono a tutte le ragazze dell'isola una moltitudine di gioielli preziosi, nascondendo fra questi degli attrezzi militari come un elmo, uno scudo ed una spada. Achille è prontamente scoperto in quanto è l'unico a gettarsi sulle armi, mentre le giovani donne vengono colpite dai diamanti e dalle collane. Ulisse riesce infine a convincere Achille a lasciare l'isola e Deidamia, l'amante, per andare in guerra, nel topos ricorrente di inseguimento della gloria anche a scapito degli affetti.

Ulisse scopre Achille tra le figlie di Licomede in un dipinto di Nicolas Poussin realizzato intorno al 1650.

Nel cast, da sottolineare sono la presenza di due tenori e della grande cantante Vittoria Tesi detta "La Moretta" nel ruolo del primo uomo, ossia nei panni del protagonista Achille, altro elemento di assoluta curiosità che ben riflette la sensibilità dell'epoca. Come già accaduto per la figura di Didone nell'opera precedente, anche l'Achille in Sciro presenta una donna piena di personalità quale Deidamia, che mostra un animo dalle molteplici sfaccettature, ben consapevole del fatto che il suo sentimento per Achille non sia pienamente ricambiato, anzi che il protagonista celi una profonda mancanza. Lo avvertiamo bene nell'aria posta a conclusione della seconda scena del primo atto, nella quale lei lo accusa di amarla in modo superficiale, di non essere veramente travolto dal desiderio:

No ingrato amor non senti;
o se pur senti amor,
perder non vuoi del cor
per me la pace.

Ami se tel rammenti
e puoi senza penar
amare e disamar
quando ti piace.

Nella quinta scena del secondo atto, prima dello scoprimento, Achille dialoga con il suo precettore Nearco, il quale gli ricorda che Deidamia ha bisogno del suo affetto. Il protagonista lo rassicura e dichiara nell'aria tutto il suo amore per la donna, affermando di non poterla lasciare per alcuna ragione:

Potria fra tante pene
lasciar l'amato bene
chi un cor di tigre avesse
né basterebbe ancor.

Che quel pietoso affetto,
che a me si desta in petto,
senton le tigri istesse,
quando le accende amor.

Due scene dopo, nella settima, si passa in un interno, in una sala illuminata e adornata a festa per un banchetto in onore di Ulisse, che intanto trama il suo piano. Achille prende la cetra e intona un inno all'amore, proprio come una ragazza greca di buona famiglia, accompagnato dal coro che gli risponde facendo da eco alle sue parole:

Se un core annodi,
se un'alma accendi
che non pretendi
tiranno amor?

Vuoi che al potere
delle tue frodi
ceda il sapere,
ceda il valor.

L'ottava scena è quella dello scoprimento, con Ulisse che, in questa versione di Metastasio, finge un attacco bellico per far sì che Achille sia richiamato alle armi. Solo in quel momento il protagonista si guarda travestito da donna e, in un moto d'impeto, come se prima di allora non si fosse veramente accorto della sua condizione, si strappa i vestiti da donna gettando a terra la cetra per impugnare una delle armi portate in dono da Ulisse.
Achille e Ulisse sono dunque pronti per recarsi insieme a combattere, quando d'improvviso Achille si ricorda di Deidamia, con Ulisse che gli dice che un giorno tornerà da lei con onore e veramente degno del suo amore. Nearco giunge troppo tardi per fermare Achille, il quale affida al precettore, nell'aria della scena IX, un messaggio da portare alla donna, in una delle arie più poetiche di Sarro, struggente e malinconica nella serie di anafore che ben trasmettono il rimorso dell'eroe e il suo sentimento sincero, quasi affannato nel dare la motivazione che lo spinge inevitabilmente verso la gloria:

Dille che si consoli;
dille che m'ami e dille
che partì fido Achille,
che fido tornerà.

Che a' suoi begli occhi soli
vuo' ch'il mio cor si stempre,
che l'idol mio fu sempre,
che l'idol mio sarà.