Il Sommo Poeta

DI MARCO CATANIA

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Due sovrani silenziosi per la pace

2025-04-27 20:24

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Storia,

Due sovrani silenziosi per la pace

L'incontro in Quirinale tra Vittorio Emanuele III e Pio XII nel 1939.

Il 28 dicembre dell'anno 1939, in una piovosa e gelida giornata romana il cui clima rispecchiava pienamente i presagi nefasti che si stavano per verificare all'orizzonte, avvenne in Quirinale un incontro dall'immenso prestigio e alquanto significativo tra l'allora sovrano d'Italia Vittorio Emanuele III e il sommo pontefice, da poco eletto al soglio petrino, Pio XII Pacelli.
Il nostro paese era ormai legato in maniera indissolubile, per le scelte politiche di Benito Mussolini, alla Germania nazista, in un sodalizio sancito nel maggio dello stesso anno con il Patto d'Acciaio firmato a Berlino dal ministro degli esteri Galeazzo Ciano.
La guerra si era scatenata a settembre quando Hitler aveva invaso la Polonia; l'Italia, nonostante l'alleanza, optò inizialmente per la neutralità a causa delle condizioni dell'esercito, ma anche e soprattutto per le posizioni del sovrano, antitedesco, e del pontefice, che sin dai primi giorni a seguito della sua elezione si prodigò per salvare la pace. Bisogna inoltre considerare il malumore del popolo italiano, stanco della guerra e ormai disilluso dal regime di Mussolini, il quale, invece, parlava di "non belligeranza" piuttosto che di neutralità, un termine che rifiutava sin dalla Grande Guerra, quando si schierò a favore degli interventisti.
Il duce, sempre più succube di Hitler, si sentiva impotente nel constatare l'inadeguatezza dell'esercito e, perdendo lucidità riguardo la situazione politica, sosteneva convinto la necessità di portare avanti l'alleanza coi tedeschi che, secondo lui, avrebbero presto sconvolto l'Europa intera uscendo trionfali da una guerra lampo. L'Italia avrebbe potuto allora rivendicare il legame con la Germania e schierarsi dalla parte dei vincitori.
Mussolini si trovava tuttavia impossibilitato ad agire poiché il re non era del suo stesso parere e si muoveva con estrema prudenza, proprio come avvenuto nel corso della Prima guerra mondiale. Hitler - pur considerando se stesso, Stalin e Mussolini i tre uomini di Stato più importanti al mondo - definiva il duce come il più debole tra loro, non solamente per ragioni territoriali, ma per l'incapacità di emanciparsi totalmente dalla Corona e dalla Chiesa. 
Il capo dello Stato ed il capo della Chiesa, in un paese cattolico ancora legato alla dinastia sabauda, avevano dunque un ruolo di notevole rilevanza, nonostante i lunghi anni di dittatura. Gli italiani, provati e spaventati da un ulteriore conflitto, si ricordarono così del loro re e guardarono fiduciosi al nuovo pontefice, al quale si erano stretti simbolicamente nell'abbraccio, in Piazza San Pietro, durante l'elezione avvenuta a marzo del '39.
Proprio in Vaticano si era recato il sovrano pochi giorni prima del Natale, accompagnato dalla moglie Elena del Montenegro e da Galeazzo Ciano, in una visita che già significava molto in quanto era solamente la seconda a seguito della conciliazione tra il Regno d'Italia e la Santa Sede. L'ostilità - che risaliva ai tempi dell'unificazione nazionale e in particolare quando le truppe di Vittorio Emanuele II entrarono a Roma ponendo fine al potere temporale di Pio IX - era culminata coi Patti Lateranensi del 1929 e con l'incontro, avvenuto nello stesso anno, tra Pio XI e Vittorio Emanuele III.
Se tuttavia Pio XI non aveva mai ricambiato la visita in Quirinale - gesto che per l'anziano sovrano avrebbe legittimato il possesso del palazzo da parte dei Savoia - il nuovo papa si dimostrò invece pronto a recarsi nell'antica dimora estiva dei successori di Pietro.
Uscito in automobile dal Vaticano, seguito dal corteo pontificale e osservato da una folla speranzosa, il papa attraversò la città in un clima surreale, reso ancor più angoscioso e tetro dal tempo impervio, sino a salire al Quirinale, dove fu ricevuto dallo sfarzo di una corte che era solita utilizzare il palazzo solamente per i ricevimenti ufficiali, avendo optato per la più borghese Villa Savoia come residenza.
L'accoglienza solenne ben si evince dal discorso pronunciato da Pio XII al cospetto dei reali:

«In questo giorno auspicato, in questa augusta Reggia, divenuta quasi Palatino di una nuova storia dell'Urbe, davanti a Sua Maestà il saggio Re e Imperatore e alla Maestà della Regina e Imperatrice, specchio di soave maternità e di virtù domestiche al popolo d'Italia, in presenza - oltre che dei Signori Cardinali e del Nostro seguito - di una così eletta accolta di Principi e di Principesse Reali, di Personaggi della Corte e del Governo, il Nostro animo rinnova l'espressione della viva compiacenza per la solenne visita, fattaCi dalle Loro Maestà nel Palazzo Apostolico Vaticano con quel sentimento di venerazione alla Sede di Pietro, che esalta agli occhi Nostri, di Roma plaudente e del mondo il plurisecolare spirito cattolico della Dinastia Sabauda, così gloriosa per la sua corona di Beati. In questa reggia dopo dieci anni si risigilla la felice concordia segnata fra la Chiesa e lo Stato, concordia che illumina in una medesima luce di gloria i nomi del venerato Nostro Antecessore Pio XI e della Maestà di Vittorio Emanuele III. [...]
Oggi, che in questa splendida aula, per la prima volta dopo decenni, la mano di un Pontefice romano si alza benedicente in segno di pace, l'Italia guarda ed esulta; guarda ed esulta il mondo cattolico, e sembrano esultare anche i due Principi degli Apostoli, che siedono immoti sull'entrata di questo palazzo, quasi paghi di veder sorta l'aurora di nuovi tempi. [...] Onde Noi supplichiamo Iddio e la Vergine Madre di stendere la loro protezione sugli Augusti Sovrani, sui Principi e le Principesse Reali, sull'illustre Capo e sui Membri del Governo, e su tutti i presenti affinché la pace, che, salvaguardata dalla saggezza dei Reggitori, fa grande, forte e rispettata l'Italia in faccia al mondo, diventi ai popoli, che oggi, quasi fratelli fattisi nemici, si combattono attraverso le terre, i cieli e i mari, sprone ed incitamento a future intese, le quali per il loro contenuto e per il loro spirito siano sicura promessa di un nuovo ordine tranquillo e duraturo, ordine che invano si cercherebbe fuori delle vie regali della giustizia e della cristiana carità».

Pur rientrando in gran parte nella consuetudine diplomatica, il messaggio, che pone in risalto la definitiva riconciliazione tra monarchia e papato, rivela nel finale l'urgenza di una pace che, nel comune intento tra Santa Sede e trono reale, è da perseguire solamente per vie regali e nella giustizia cristiana. Ne è consapevole lo stesso re, che prosegue la propria politica attendista promuovendo la posizione di neutralità come la migliore da assumere: «Sei mesi di neutralità e noi rappresenteremo una grande forza». Allo stesso tempo i due sovrani, che si intrattengono in un dialogo privato presso la sala del trono, provano a smuovere qualcosa nella situazione interna del paese e del regime, individuando in Galeazzo Ciano la possibile pedina da muovere contro Mussolini, dato il suo rapido allontanamento dalla politica filotedesca proprio a seguito degli accordi sanciti a Berlino. Il re dichiara apertamente stima e fiducia a Ciano, insignendolo del Collare della Santissima Annunziata, la più alta onorificenza regia, esortando lui e i gerarchi fascisti ad una convocazione del Gran Consiglio allo scopo di discutere una sostituzione al vertice. A quel punto il re, da sempre fermo nel suo ruolo costituzionale che gli impedisce di agire senza l'assenso parlamentare, avrebbe l'occasione di destituire Mussolini e conferire il potere a Ciano. Quest'ultimo, tuttavia, non troverà il coraggio di opporsi a Mussolini, quasi una sorta di padre a cui doveva molto della propria fortuna politica e al quale si era legato da vincoli di parentela avendone sposato la figlia Edda. Il coraggio Ciano lo avrà forse troppo tardi, nel 1943, quando voterà per la destituzione del duce.
Papa Pacelli - che a Ciano conferisce invece il titolo di Cavaliere dell'Ordine dello Speron d'oro, un riconoscimento per l'opera svolta a favore della causa della pace, - affermò durante l'incontro di avere «molta stima per la famiglia reale» e intanto guardava con fiducia anche al principe ereditario Umberto II nonché a sua moglie Maria José, entrambi presenti all'incontro, conoscendo la sincera fede cattolica del futuro re, il loro comune antifascismo e l'avversione della principessa per i tedeschi. Quest'ultima, nonostante l'iniziale ammirazione per Mussolini, era in contatto con intellettuali invisi al regime, coi quali condivideva la convinzione dell'assurdità delle leggi razziali, promulgate per servile subordinazione alla politica tedesca.
Anche i sudditi nutrivano maggiore speranza, in casa Savoia, nei riguardi della giovane coppia, ma in questo caso Vittorio Emanuele non voleva sentire ragioni, fermo nel suo motto che era solito ripetere: «in Casa Savoia, si regna uno alla volta», costringendo l'erede al trono ad una vita politica puramente contemplativa, dubitando delle sue capacità politiche.
Si può allora attribuire a questa rigidità del sovrano, del suo lento e inesorabile declino che lo caratterizzava in questi anni, il fallimento di tale incontro che poteva scongiurare la guerra e cambiare il destino del nostro paese. Di fatto, quando i due sovrani si congedarono, mentre Pio XII sussurrava a Vittorio Emanuele: «Maestà, conti pure sul mio affetto, sul mio grande affetto», terminavano tragicamente e malinconicamente le possibilità di arginare l'intervento nel conflitto. Malinconicamente poiché in quel giorno di dicembre moriva lentamente anche l'istituzione monarchica, considerata corresponsabile del fascismo, ma anche l'ideale universale di pace promosso dal pontefice, rimasto inascoltato.
A prevalere, dal 1940 sino a termine del conflitto, furono i regimi totalitari con la loro spietata violenza, a scapito di istituzioni secolari che il fascismo, nel corso del suo governo, era riuscito a indebolire.
I rapidissimi successi tedeschi faranno saltare le ultime barriere che trattenevano nella non belligeranza il duce, il quale dichiarava, dopo l'incontro in Quirinale: «Non creda il Papa di cercare alleanza nella Monarchia, perché sono pronto a far saltare le due cose insieme». Per Vittorio Emanuele opporsi diventava estremamente difficile e, ancora una volta, cede a Mussolini.
Quando il duce chiamerà gli italiani alle armi dal balcone di Palazzo Venezia, nel tardo pomeriggio del 10 giugno 1940, il re ascoltava il discorso alla radio nella solitudine del suo studio di numismatica, mentre il pontefice nel silenzio del Vaticano.
Vittorio Emanuele e papa Pacelli, così distanti nei modi e nelle fattezze fisiche, vivranno da quel momento un medesimo destino, entrambi considerati come silenziosi complici, il primo del regime e il secondo delle deportazioni ebraiche.
La storia e numerosi biografi condannano duramente Vittorio Emanuele per il suo riserbo e l'incapacità di opporsi a Mussolini, ma in uno scenario tremendo come quello che stava vivendo l'Europa ogni decisione avrebbe comunque ferito inevitabilmente l'Italia, sia nell'ipotesi di una destituzione del duce, con lo scoppio di una guerra civile e l'invasione tedesca, sia nel caso di partecipazione al conflitto, come avvenne, al fianco di quello che allora sembrava l'alleato più forte, che, probabilmente, a guerra vinta, avrebbe comunque forzato per l'instaurazione della repubblica in Italia. Il sovrano decise così, pur non condividendo la politica di Mussolini, di assumersi la piena responsabilità di fronte alla storia.
Il papa, invece, come hanno fatto emergere molti studiosi in recenti analisi, si impegnò molto, silenziosamente, nell'aiutare gli ebrei perseguitati.
Furono silenzi aristocratici, quelli dei due sovrani, che peseranno fortemente su di loro al cospetto della storia, tuttavia lo scorrere del tempo pone in risalto sempre più l'impossibilità di azioni veramente decisive al cospetto di eventi tanto drammatici, dinanzi a pagine immani per l'umanità, conferendo dunque valore a quei silenzi, per di più in anni caratterizzati da retoriche roboanti, efferata violenza e dalla fascinazione autoritaria.

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Il 28 dicembre dell'anno 1939, in una piovosa e gelida giornata romana il cui clima rispecchiava pienamente i presagi nefasti che si stavano per verificare all'orizzonte, avvenne in Quirinale un incontro dall'immenso prestigio e alquanto significativo tra l'allora sovrano d'Italia e il sommo pontefice, da poco eletto al soglio petrino, Pacelli.Il nostro paese era ormai legato in maniera indissolubile, per le scelte politiche di , alla Germania nazista, in un sodalizio sancito nel maggio dello stesso anno con il Patto d'Acciaio firmato a Berlino dal ministro degli esteri Galeazzo Ciano.La guerra si era scatenata a settembre quando Hitler aveva invaso la Polonia; l'Italia, nonostante l'alleanza, optò inizialmente per la neutralità a causa delle condizioni dell'esercito, ma anche e soprattutto per le posizioni del sovrano, antitedesco, e del pontefice, che sin dai primi giorni a seguito della sua elezione si prodigò per salvare la pace. Bisogna inoltre considerare il malumore del popolo italiano, stanco della guerra e ormai disilluso dal regime di Mussolini, il quale, invece, parlava di "non belligeranza" piuttosto che di neutralità, un termine che rifiutava sin dalla Grande Guerra, quando si schierò a favore degli interventisti.Il duce, sempre più succube di Hitler, si sentiva impotente nel constatare l'inadeguatezza dell'esercito e, perdendo lucidità riguardo la situazione politica, sosteneva convinto la necessità di portare avanti l'alleanza coi tedeschi che, secondo lui, avrebbero presto sconvolto l'Europa intera uscendo trionfali da una guerra lampo. L'Italia avrebbe potuto allora rivendicare il legame con la Germania e schierarsi dalla parte dei vincitori.Mussolini si trovava tuttavia impossibilitato ad agire poiché il re non era del suo stesso parere e si muoveva con estrema prudenza, proprio come avvenuto nel corso della Prima guerra mondiale. Hitler - pur considerando se stesso, Stalin e Mussolini i tre uomini di Stato più importanti al mondo - definiva il duce come il più debole tra loro, non solamente per ragioni territoriali, ma per l'incapacità di emanciparsi totalmente dalla Corona e dalla Chiesa. Il capo dello Stato ed il capo della Chiesa, in un paese cattolico ancora legato alla dinastia sabauda, avevano dunque un ruolo di notevole rilevanza, nonostante i lunghi anni di dittatura. Gli italiani, provati e spaventati da un ulteriore conflitto, si ricordarono così del loro re e guardarono fiduciosi al nuovo pontefice, al quale si erano stretti simbolicamente nell'abbraccio, in Piazza San Pietro, durante l'elezione avvenuta a marzo del '39.Proprio in Vaticano si era recato il sovrano pochi giorni prima del Natale, accompagnato dalla moglie e da Galeazzo Ciano, in una visita che già significava molto in quanto era solamente la seconda a seguito della conciliazione tra il Regno d'Italia e la Santa Sede. L'ostilità - che risaliva ai tempi dell'unificazione nazionale e in particolare quando le truppe di entrarono a Roma ponendo fine al potere temporale di Pio IX - era culminata coi Patti Lateranensi del 1929 e con l'incontro, avvenuto nello stesso anno, tra e Vittorio Emanuele III.Se tuttavia Pio XI non aveva mai ricambiato la visita in Quirinale - gesto che per l'anziano sovrano avrebbe legittimato il possesso del palazzo da parte dei Savoia - il nuovo papa si dimostrò invece pronto a recarsi nell'antica dimora estiva dei successori di Pietro.Uscito in automobile dal Vaticano, seguito dal corteo pontificale e osservato da una folla speranzosa, il papa attraversò la città in un clima surreale, reso ancor più angoscioso e tetro dal tempo impervio, sino a salire al Quirinale, dove fu ricevuto dallo sfarzo di una corte che era solita utilizzare il palazzo solamente per i ricevimenti ufficiali, avendo optato per la più borghese Villa Savoia come residenza.L'accoglienza solenne ben si evince dal discorso pronunciato da Pio XII al cospetto dei reali: Pur rientrando in gran parte nella consuetudine diplomatica, il messaggio, che pone in risalto la definitiva riconciliazione tra monarchia e papato, rivela nel finale l'urgenza di una pace che, nel comune intento tra Santa Sede e trono reale, è da perseguire solamente per vie regali e nella giustizia cristiana. Ne è consapevole lo stesso re, che prosegue la propria politica attendista promuovendo la posizione di neutralità come la migliore da assumere: «Sei mesi di neutralità e noi rappresenteremo una grande forza». Allo stesso tempo i due sovrani, che si intrattengono in un dialogo privato presso la sala del trono, provano a smuovere qualcosa nella situazione interna del paese e del regime, individuando in Galeazzo Ciano la possibile pedina da muovere contro Mussolini, dato il suo rapido allontanamento dalla politica filotedesca proprio a seguito degli accordi sanciti a Berlino. Il re dichiara apertamente stima e fiducia a Ciano, insignendolo del Collare della Santissima Annunziata, la più alta onorificenza regia, esortando lui e i gerarchi fascisti ad una convocazione del Gran Consiglio allo scopo di discutere una sostituzione al vertice. A quel punto il re, da sempre fermo nel suo ruolo costituzionale che gli impedisce di agire senza l'assenso parlamentare, avrebbe l'occasione di destituire Mussolini e conferire il potere a Ciano. Quest'ultimo, tuttavia, non troverà il coraggio di opporsi a Mussolini, quasi una sorta di padre a cui doveva molto della propria fortuna politica e al quale si era legato da vincoli di parentela avendone sposato la figlia Edda. Il coraggio Ciano lo avrà forse troppo tardi, nel 1943, quando voterà per la destituzione del duce.Papa Pacelli - che a Ciano conferisce invece il titolo di Cavaliere dell'Ordine dello Speron d'oro, un riconoscimento per l'opera svolta a favore della causa della pace, - affermò durante l'incontro di avere «molta stima per la famiglia reale» e intanto guardava con fiducia anche al principe ereditario nonché a sua moglie Maria José, entrambi presenti all'incontro, conoscendo la sincera fede cattolica del futuro re, il loro comune antifascismo e l'avversione della principessa per i tedeschi. Quest'ultima, nonostante l'iniziale ammirazione per Mussolini, era in contatto con intellettuali invisi al regime, coi quali condivideva la convinzione dell'assurdità delle leggi razziali, promulgate per servile subordinazione alla politica tedesca.Anche i sudditi nutrivano maggiore speranza, in casa Savoia, nei riguardi della giovane coppia, ma in questo caso Vittorio Emanuele non voleva sentire ragioni, fermo nel suo motto che era solito ripetere: «in Casa Savoia, si regna uno alla volta», costringendo l'erede al trono ad una vita politica puramente contemplativa, dubitando delle sue capacità politiche.Si può allora attribuire a questa rigidità del sovrano, del suo lento e inesorabile declino che lo caratterizzava in questi anni, il fallimento di tale incontro che poteva scongiurare la guerra e cambiare il destino del nostro paese. Di fatto, quando i due sovrani si congedarono, mentre Pio XII sussurrava a Vittorio Emanuele: «Maestà, conti pure sul mio affetto, sul mio grande affetto», terminavano tragicamente e malinconicamente le possibilità di arginare l'intervento nel conflitto. Malinconicamente poiché in quel giorno di dicembre moriva lentamente anche l'istituzione monarchica, considerata corresponsabile del fascismo, ma anche l'ideale universale di pace promosso dal pontefice, rimasto inascoltato.A prevalere, dal 1940 sino a termine del conflitto, furono i regimi totalitari con la loro spietata violenza, a scapito di istituzioni secolari che il fascismo, nel corso del suo governo, era riuscito a indebolire.I rapidissimi successi tedeschi faranno saltare le ultime barriere che trattenevano nella non belligeranza il duce, il quale dichiarava, dopo l'incontro in Quirinale: «Non creda il Papa di cercare alleanza nella Monarchia, perché sono pronto a far saltare le due cose insieme». Per Vittorio Emanuele opporsi diventava estremamente difficile e, ancora una volta, cede a Mussolini.Quando il duce chiamerà gli italiani alle armi dal balcone di Palazzo Venezia, nel tardo pomeriggio del 10 giugno 1940, il re ascoltava il discorso alla radio nella solitudine del suo studio di numismatica, mentre il pontefice nel silenzio del Vaticano. Vittorio Emanuele e papa Pacelli, così distanti nei modi e nelle fattezze fisiche, vivranno da quel momento un medesimo destino, entrambi considerati come silenziosi complici, il primo del regime e il secondo delle deportazioni ebraiche.La storia e numerosi biografi condannano duramente Vittorio Emanuele per il suo riserbo e l'incapacità di opporsi a Mussolini, ma in uno scenario tremendo come quello che stava vivendo l'Europa ogni decisione avrebbe comunque ferito inevitabilmente l'Italia, sia nell'ipotesi di una destituzione del duce, con lo scoppio di una guerra civile e l'invasione tedesca, sia nel caso di partecipazione al conflitto, come avvenne, al fianco di quello che allora sembrava l'alleato più forte, che, probabilmente, a guerra vinta, avrebbe comunque forzato per l'instaurazione della repubblica in Italia. Il sovrano decise così, pur non condividendo la politica di Mussolini, di assumersi la piena responsabilità di fronte alla storia.Il papa, invece, come hanno fatto emergere molti studiosi in recenti analisi, si impegnò molto, silenziosamente, nell'aiutare gli ebrei perseguitati.Furono silenzi aristocratici, quelli dei due sovrani, che peseranno fortemente su di loro al cospetto della storia, tuttavia lo scorrere del tempo pone in risalto sempre più l'impossibilità di azioni veramente decisive al cospetto di eventi tanto drammatici, dinanzi a pagine immani per l'umanità, conferendo dunque valore a quei silenzi, per di più in anni caratterizzati da retoriche roboanti, efferata violenza e dalla fascinazione autoritaria.

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