Charles Baudelaire

È questo mirabile, questo immortale istinto del bello che ci fa considerare la terra e i suoi spettacoli come una percezione, come una corrispondenza del Cielo. La sete insaziabile di tutto ciò che è oltre, e che la vita rivela, è la prova più viva della nostra immortalità. È con la poesia e attraverso la poesia, con la musica e attraverso la musica che l'anima intravede gli splendori che stanno oltre la tomba; e quando una poesia squisita porta le lacrime sul ciglio degli occhi, queste lacrime non sono la prova di un eccesso di godimento, ma piuttosto la testimonianza di una malinconia irritata, di una postulazione nervosa, di una natura esiliata nell'imperfetto e che vorrebbe impadronirsi immediatamente, su questa terra stessa, di un paradiso rivelato.

Charles Baudelaire nacque a Parigi il 9 aprile 1821.

Dopo la morte del padre, la madre si risposò con un autoritario ufficiale e il futuro poeta passò in collegio, tra Lione e Parigi, un’adolescenza malinconica e irrequieta. Nel 1841, dopo essere stato allontanato dal collegio e aver iniziato una vita di studente svincolato dalla scuola e la sua carriera di poeta e scrittore, viene imbarcato, per volontà del patrigno, su una nave diretta in India. Nel 1842 decise improvvisamente di ritornare a Parigi dove restò per tutta la sua vita cercando sempre di realizzare un’esistenza dedita al culto dell’arte e della bellezza. Qui entrò in possesso di parte dell’eredità paterna, che però in poco tempo sperperò quasi integralmente tra acquisti d’arte e regali per la giovane Jeanne Duval, una delle presenze più significative nella vita del poeta, ispiratrice di tante poesie dei Fiori del male, cui fu legato da una passione turbolenta, che, tra alti e bassi, durò per tutta la vita.

Nel 1844, la madre e il patrigno si rivolsero al tribunale e lo misero sotto tutela, così da impedirgli di sperperare il patrimonio residuo. Baudelaire, nelle sue lettere, lamentò la perpetua mancanza di denaro.

A partire dal 1845, il poeta cominciò a pubblicare le prime poesie e critiche d’arte. Quest'ultime faranno di lui il più grande teorico e critico d'arte del XIX secolo. A Parigi frequentò i più noti artisti e intellettuali e, per quanto gli fu possibile, condusse la vita dispendiosa del dandy. Sempre in questo periodo prese forma il primo progetto dei Fiori del male, la sua opera più celebre.

Nel 1847 pubblicò il racconto La Fanfarlo con il quale inizia un suo tormentato rapporto con la prosa e la narrazione che si risolverà nell'ultima fase della sua vita.

Il 1848 fu un anno cruciale: scoppiò la rivoluzione e lottò in prima linea sulle barricate. Il fallimento dei moti rivoluzionari però produsse in lui una delusione fortissima che lo portò ad allontanarsi definitivamente dalla politica.

In seguito inviò a Madame Sabatier la prima delle poesie a lei dedicate: la donna incarnò l’immagine di un amore puro e salvifico, del tutto opposto all’amore ossessionante, sensuale e morboso nutrito nei confronti di Jeanne.

Importante fu la scoperta dell'opera dello scrittore americano Edgar Allan Poe, per cui Baudelaire nutre una spiccata predilezione e al quale dedica saggi e traduzioni.

Nel 1851 scrisse Sul vino e sull'hascisc, che poi si dilaterà nel libro I paradisi artificiali.

Nel 1857 uscì la prima edizione dei Fiori del male che suscitò uno scandalo immediato fino a portare Baudelaire a subire un processo. Venne condannato per oltraggio alla morale pubblica e religiosa: sei poesie della raccolta furono censurate e l’autore costretto a pagare un’ammenda.

Compose nel 1861 i primi testi dello Spleen di Parigi con il titolo Poemi notturni.

Baudelaire passò gli ultimi anni della sua vita mantenendo Jeanne Duval che fu colpita da un attacco di paralisi ma contemporaneamente lavorò molto alla redazione di importanti saggi critici sulla letteratura, sulla musica e sulla pittura.

Di questo periodo è Il mio cuore messo a nudo, una sorta di diario intimo, rimasto però incompleto e pubblicato postumo. Nelle intenzioni dell'autore, l'opera avrebbe dovuto strutturarsi come una confessione autobiografica, ma del progetto non resta che un insieme disordinato di note dedicate ai più svariati argomenti.

Nel 1864, forse per sfuggire ai creditori, Baudelaire si trasferì a Bruxelles dove sperava di guadagnare soldi con delle conferenze e di trovare un editore per le sue opere. Nulla di tutto questo. Nel 1866 fu colpito da un ictus che gli paralizzò il lato destro del corpo e gli fece perdere l’uso della parola. Dopo esser stato trasferito in una casa di cura a Parigi, morì il 31 agosto 1867.

Poco dopo la sua morte viene pubblicata un'edizione completa delle sue opere e scritta la sua prima biografia. Inizia così la leggenda di Baudelaire: un poeta dannato, maledetto, che il XX secolo consacra come il primo poeta della modernità e uno dei suoi massimi pensatori.

"Chi di noi non ha, nei suoi giorni d'ambizione, sognato il miracolo di una prosa poetica, musicale, senza il ritmo e la rima, tanto mutevole e precisa da adattarsi ai movimenti lirici dell'anima, alle oscillazioni della fantasticheria, ai soprassalti della coscienza? Questo ossessivo ideale nasce soprattutto dalla frequentazione delle città immani, dall'intreccio dei loro smisurati rapporti".

Queste parole sono tratte dalla dedica che introduce Lo Spleen di Parigi, un'opera rivoluzionaria che inaugura un genere, come sottolinea lo stesso Baudelaire rimarcando la distanza dai modelli precedenti. Essa è una raccolta di cinquanta poemetti in prosa di misura variabile, di cui "solo ingiustamente si potrebbe dire che non abbia né capo né coda, perché, al contrario, tutto in essa è capo e coda, alternativamente e reciprocamente". Può essere quindi tagliata ovunque in frammenti e ognuno di essi avrà un senso, un significato.

Nella dedica viene anche espresso il significato di folla, di quello che si avverte vivendo in città molto grandi; ciò è fondamentale per comprendere l'opera e la poetica dello scrittore francese. In mezzo alla folla si sperimenta la condizione dell’anonimato: si prova l’ebrezza di non essere riconosciuti e di non riconoscere nessuno, ciò assomiglia molto alla perfetta libertà. Si sperimenta, tuttavia, anche un senso di solitudine a cui consegue l’angoscia di non esistere e la percezione che il mondo intorno non esista. Gli sguardi che si incrociano ma non si guardano e la confusione che si vive nella folla è una condizione caratteristica dei moderni e Baudelaire fu il primo poeta che riuscì a rappresentarla pienamente.

"L'enigma che noi siamo si moltiplica negli enigmi di tutti gli sguardi che incrociano la nostra esistenza".

A partire dalle città immense, dalle folle e dai mille destini che vi si intrecciano, nello Spleen di Parigi l'autore cerca di trovare un linguaggio che sappia esprimere questa sensazione, un linguaggio che sappia afferrare l'inafferrabile ed elevarsi in tutta la sua bellezza sopra la confusione delle strade.

Le folle

"Non a tutti è dato di prendere un bagno di moltitudine: godere della folla è un'arte; e può concedersi un'orgia di vitalità a spese del genere umano soltanto quello a cui una fata abbia insufflato fin dalla culla il gusto del travestimento e della maschera, l'odio del domicilio e la passione del viaggio.

Moltitudine, solitudine: termini uguali e convertibili per il poeta attivo e fecondo. Chi non sa popolare la sua solitudine, non sa nemmeno essere solo in una folla indaffarata.

Il poeta gode di questo incomparabile privilegio, di poter essere, a suo piacere, se stesso o un altro. Come quelle anime errabonde alla ricerca di un corpo, egli entra, quando vuole, nel personaggio di ognuno. Per lui solo, tutto è vacante. E se certi luoghi sembrano essergli preclusi, è perché ai suoi occhi non valgono la pena di essere visitati.

Il passeggiatore solitario e pensoso trae una singolare ebbrezza da questa universale comunione. Chi sposa facilmente la folla conosce godimenti febbrili, di cui saranno per sempre privati l'egoista, chiuso in sé come una cassaforte, e il pigro, prigioniero come un mollusco. Egli fa sue tutte le professioni, tutte le gioie e tutte le miserie che il caso gli presenta.

Ciò che gli uomini chiamano amore è ben piccolo, angusto e debole, paragonato a quell'ineffabile orgia, a quella sacra prostituzione dell'anima che si dà tutta intera, poesia e carità, all'imprevisto che si mostra all'improvviso allo sconosciuto che passa.

È bene insegnare qualche volta ai felici di questo mondo, non fosse altro che per umiliare per un istante il loro stupido orgoglio, che ci sono felicità superiori alla loro, più vaste, più raffinate. I fondatori di colonie, i pastori di popoli, i preti missionari esiliati ai limiti del mondo, conoscono di certo qualcosa di queste misteriose ebbrezze; e, in seno alla vasta famiglia che il loro genio si è fatta, qualche volta devono ridere di quelli che li compiangono per la loro sorte così tormentata, e per la loro vita così casta".

Altro tema fondamentale dell'opera è il significato di spleen, che esprime tutto lo stato d'animo tormentato e irrequieto del poeta. Derivante dall'inglese, la parola spleen può essere tradotta come noia, malinconia, tedio, ma il suo significato è più forte; lo spleen è uno stato di disperazione senza via di fuga, una sensazione di oppressione e di angoscia protratta e difficilmente scalfibile, un’alterazione dell’umore che può essere paragonata a ciò che oggi s’intende per depressione. Spleen deriva dal greco splén che significa “milza”. Infatti, anticamente, si riteneva che quest’organo fosse deputato a secernere la bile nera, nella quale s’individuava la causa scatenante della malinconia. Per Baudelaire lo stato d’animo dello spleen non è soltanto individuale, ma diventa il segno di un disagio generale che rispecchia le inquietudini profonde della modernità. È quello stato di male di vivere che il poeta incarnò nella sua totalità: si sentiva un “esiliato”, un “angelo caduto”, un poeta maledetto, estraneo al mondo in cui viveva e conscio della propria incapacità di trasformarlo. Ciò porta al tramonto di ogni speranza e alla vittoria dell’angoscia, che diventa tragico emblema di tutto il suo essere. Questa condizione, e il concetto del termine spleen, è spiegato dall'autore stesso in una lettera alla madre del 1857.

“Quello che sento è un immenso scoraggiamento, una sensazione di isolamento insopportabile, una paura perpetua di una sventura vaga, una sfiducia completa nelle mie forze, un’assenza totale di desideri, una impossibilità di trovare un divertimento qualunque. Io mi domando senza sosta: perché fare questo? Perché fare quello? È il vero spirito di spleen”.

Le tematiche trattate dalla poesia di Baudelaire sono sempre legate ai rapporti tra le persone, all'ipocrisia della società, alle emozioni e all'amore; tutto questo contenuto in una grande opera, la più celebre e importante dell'autore, intitolata I fiori del male. Anch'essa, come Lo Spleen di Parigi, prende forma dal tema della folla: è proprio camminando per le vie di Parigi che Baudelaire vede cadere nel fango l’aureola del poeta e decide di parlare di questo contrasto fra la bellezza e la degradazione mettendo in violento attrito i due temi, fin dal titolo del suo capolavoro. Da una parte, infatti, I fiori del male è un ossimoro che unisce due immagini contrastanti: il fiore, tradizionalmente collegato all’amore e alla bellezza, è adesso associato al male. L’autore suggerì così l’idea di una bellezza stridente, disarmonica, contraddittoria, come lo è la sua stessa poesia, che si nutre di ossimori e di antitesi. Dall’altra, il titolo è allegorico, perché esprime un concetto astratto, il male, in un’immagine concreta, i fiori.

Perdita d'aureola

"Eh! che! voi qui, mio caro? Voi, in un bordello! voi che sorseggiate la quintessenza! voi che mangiate l'ambrosia! In verità c'è da lasciarmi stupefatto".

"Mio caro, voi conoscete il mio terrore dei cavalli e delle carrozze. Poco fa, mentre attraversavo la via in tutta fretta, mentre saltellavo nel fango, attraverso quel mobile caos in cui la morte giunge al galoppo da tutti i lati allo stesso istante, la mia aureola, per un brusco movimento, è scivolata dalla mia testa nella fanghiglia della strada. Non ho avuto il coraggio di raccattarla. Ho pensato che fosse meno sgradevole perdere le mie insegne che rompermi le ossa. E poi, mi sono detto, non tutto il male viene per nuocere. Posso ora passeggiare in incognito, fare delle basse azioni, darmi alla crapula come i semplici mortali. Ed eccomi qui, del tutto simile a voi, come vedete!"

"Dovreste almeno mettere un annuncio per questa perdita d'aureola, o denunciarla al commissario".

"Assolutamente no! Mi trovo bene qui. Voi solo mi avete riconosciuto. D'altronde la dignità mi annoia. E poi penso con gioia che qualche cattivo poeta la raccoglierà, e se ne incoronerà impudentemente. Rendere uno felice, quale gioia! E soprattutto far felice uno che mi farà ridere! Pensate a X, o a Z! Che buffonata, no?"

Nel poemetto Perdita d'aureola, pubblicato nella raccolta Lo Spleen di Parigi, Baudelaire immagina un dialogo tra due personaggi. Uno di questi, il poeta stesso, racconta come abbia perso l'aureola camminando per le strade di Parigi, tra le carrozze e gli urti della folla. L'aureola è il segno della sacralità della funzione del poeta; essa, una volta caduta, non è più recuperabile: chi la raccoglierà per volerla indossare non potrà che essere un cattivo poeta. Baudelaire vuole quindi mostrare il cambiamento della figura e del ruolo sociale dell'artista, il quale ha perso la propria condizione di privilegio. Il suo declassamento è determinato dall'avvento della modernità; proprio per questo il poemetto è ambientato in una Parigi affollata e caotica.

In mezzo ai frastuoni della città e alla confusione della folla, possono rivelarsi per un attimo anche la bellezza e l'amore: nella poesia A una passante, contenuta nei Fiori del male, Baudelaire narra di un amore non vissuto, iniziato e concluso in uno sguardo che però rimane indelebile per il poeta. Questo breve istante in cui i loro occhi si sono incrociati annuncia la felicità e subito la revoca, mentre la donna si allontana e sparisce tra la gente. Lui l'ha guardata e non la dimentica più, nonostante i loro occhi si siano incontrati solo per un istante, e anche se non potranno stare insieme l'autore afferma che entrambi dentro di loro se ne vanno con la convinzione che si sarebbero amati.

A una passante

Urlava attorno a me la via, senza pietà.

Alta, snella, in gramaglie, sovranamente triste,

con sontuosa mano sollevando le liste

dell'abito, guarnito di ondosi falbalà,

e con gamba di statua, passò una donna: vidi,

bevvi nell'occhio suo, con spasimi d'insano,

come in un cielo livido, gravido d'uragano,

dolcezze ammalianti e piaceri omicidi.

Fu un lampo... poi la notte. Fuggitiva beltà,

nel cui sguardo, all'istante, l'anima mia risorse,

non ti vedrò più dunque che nell'eternità?

Altrove, e via di qui! Troppo tardi! mai, forse!

Poiché corriamo entrambi a ignoto e opposto sito,

o tu che avrei amato, o tu che l'hai capito!