Vittorio Emanuele II

Padre della Patria

L'identità dell'Italia unita e il simbolo della nostra patria coincide con la figura del suo primo sovrano, il cui nome ritroviamo in ogni città, nelle vie, nelle piazze o nei solenni monumenti, dal Vittoriano di Roma sino a Piazza del Duomo a Milano. Vittorio Emanuele di Savoia, divenuto re d'Italia nel 1861 grazie al suo ruolo di protagonista nella parabola risorgimentale, è l'emblema stesso della nostra penisola e della storia dell'unificazione del nostro territorio, che per quanto complessa e non priva di sconfitte e malcontenti, è quanto di più profondo ci identifica. Per tale motivo può essere particolarmente interessante riscoprire la figura leggendaria e a volte romanzata - soprattutto dopo la morte - del "Gran Re", oltre che estremamente importante ricordare le nostre origini, recandosi magari a contemplare un monumento come l'Altare della Patria nella città eterna, ma anche la tomba maestosa, presso il Pantheon, di colui che rimarrà per sempre l'immagine del Risorgimento e di quanto siamo oggi, della nostra storia di nascita come Stato unitario: il Padre della Patria.

A seguito della disfatta di Novara nel 1849, che poneva apparentemente fine ai sogni unitari dell'Italia, l'amletico Carlo Alberto, costretto all'abdicazione e all'esilio, mai si sarebbe potuto immaginare che solo pochi anni più tardi al primogenito Vittorio Emanuele sarebbe spettato il compito di unificare finalmente il paese, trasformando i Savoia da una modesta dinastia piemontese - anche se nei secoli ambiziosa - nella monarchia dell'Italia unita con capitale nientemeno che Roma.
Carlo Alberto di Savoia e sua moglie Maria Teresa di Toscana ebbero l'erede Vittorio Emanuele il 14 marzo del 1820, rischiando a soli due anni d'età di perderlo a causa di un tragico incidente che costò la vita alla sua nutrice. In una calda giornata settembrina, mentre il piccolo dormiva, improvvisamente la sua culla prese fuoco quando la balia vi si avvicinò incautamente con una candela per allontanare le molte zanzare che turbavano sonno del bambino. Al divampare delle fiamme, la donna riuscì a trarre in salvo l'infante, che riportò solamente qualche scottatura, mentre la nutrice troverà la morte a seguito di alcuni giorni di sofferenza. La versione dell'incidente alimentò subito la leggenda di una pronta sostituzione nella culla del neonato, morto bruciato, con il figlio di un macellaio. In realtà si tratta di un aneddoto, poiché un altro erede sarebbe comunque arrivato con la nascita di Ferdinando esattamente due mesi dopo l'incidente, tuttavia quando Vittorio Emanuele divenne più grande le voci continuarono a diffondersi per il suo carattere così diverso rispetto all'ascetico Carlo Alberto, un padre dal profondo senso religioso, che inculcò al figlio una severa disciplina e il timore di Dio. L'erede mostrava scarso interesse per lo studio, insofferenza per i cerimoniali di corte e gusti semplici, maniere alquanto rozze, vestendo da contadino e praticando la caccia come passatempo, mentre il re suo padre era un intellettuale solitario e malinconico, che per temperamento, eleganza, ma soprattutto per la sorte avversa che gli costò l'esilio in Portogallo può essere accostato a Umberto II, l'ultimo regnante di Casa Savoia.
Vittorio Emanuele differiva inoltre anche dalla madre, Maria Teresa, una donna di origini asburgiche particolarmente timida e riservata, anch'ella, come il marito, fervente devota. Il principe ereditario era basso, robusto, scuro di carnagione, tutto il contrario del padre biondo, magro e alto più di due metri, nonché del fratello Ferdinando, gracile di costituzione e posato nei modi, capostipite del ramo dei Savoia-Genova.

Ritratto del Re di Sardegna Carlo Alberto, "l'Italo Amleto" per il poeta Giosuè Carducci.

Agli antipodi erano infine i comportamenti di padre e figlio nelle scelte politiche; all'inettitudine di Carlo Alberto, dubbioso e incapace di scelte rapide e prive di lunghe riflessioni, si contrapponevano infatti le chiare idee di Vittorio Emanuele, che seppe sfruttare il momento storico e ogni occasione favorevole.
Forse per questa netta differenza di carattere, più probabilmente per incomprensioni o per la rigidità educativa che sempre connotò Casa Savoia, il futuro primo sovrano d'Italia crebbe in un clima privo di tenerezze paterne, avviato ad un severo e rigoroso percorso di crescita finalizzato al temprarsi moralmente come sovrano. L'indole, tuttavia, rimase per sempre quella di un uomo gioviale e amante della vita, del buon cibo e delle belle donne, mostrando doti, come l'allegria e la capacità di conquistarsi la simpatia popolare, che mai si sarebbero dette proprie di un Savoia. Montanelli lo definì "franco, schietto, manesco, prepotente, grossolano negli scherzi, coraggioso, fanfarone, smanioso di moto, d'azione e di aria libera".
Rispetto agli aristocratici predecessori le sue passioni erano, come detto, la caccia e il montare a cavallo, ma più di tutto Vittorio Emanuele amava le donne, per le quali aveva un vero e proprio debole, circondandosi di amanti anche a seguito del matrimonio a cui fu destinato per volere paterno nel 1842.
La sposa designata era Maria Adelaide d'Asburgo, scelta da Carlo Alberto perché figlia di sua sorella - cattolica, aggraziata, alquanto timida di temperamento - e approvata dalla regina Maria Teresa in quanto anch'ella una Asburgo. Maria Adelaide era prima cugina di Vittorio Emanuele, ma i due non si erano mai conosciuti e non erano a conoscenza delle scelte dei rispettivi genitori, inoltre i matrimoni tra consanguinei non saranno mai un problema nella dinastia sabauda, anzi spesso erano visti come l'unica soluzione alla mancanza di alternative in altre famiglie regnanti per ragioni politiche o religiose. La vita coniugale non sarà alquanto felice per Maria Adelaide, consapevole dei tradimenti e stremata dai numerosi parti che minarono definitivamente una salute già alquanto cagionevole. Divenuta regina consorte di Sardegna, la donna si spense in giovane età nel 1855, senza riuscire così a divenire la prima regina d'Italia, ruolo che spetterà a Margherita di Savoia.
Trascorsi due anni dal matrimonio venne alla luce l'erede al trono, il futuro Umberto I, nato il 14 marzo del 1844, lo stesso giorno di suo padre. L'anno seguente fu la volta del secondogenito, Amedeo d'Aosta, il quale darà vita a quel ramo cadetto che sovente arrecherà disturbo ai regnanti.

Maria Adelaide con il figlio Umberto.

Poco più tardi del matrimonio e della nascita del primogenito, Vittorio Emanuele, sebbene fosse ancora un ragazzo, aveva già un'amante, vale a dire l'attrice Laura Bon, conosciuta in una serata trascorsa controvoglia a teatro. Fu un colpo di fulmine, destinato però a durare quasi dieci anni, nonostante l'incompatibilità dei caratteri dei due amanti. Decisivo per l'inclinarsi dei rapporti fu l'incontro con la celebre Rosina Vercellana, una donna giovane, semplice nei modi e d'estrazione popolare, per la quale il sovrano nutrì sempre una vera venerazione, al punto che decise di sposarla una volta rimasto vedovo. La "bella Rosina" rischiò addirittura di divenire la prima regina d'Italia, ma alla fine, anche per lo sdegno del Conte Camillo Benso di Cavour, il matrimonio rimase morganatico.

La vita politica di Vittorio Emanuele iniziò nel 1849, quando, ancora giovane, raccolse la difficile eredità paterna a seguito delle pesanti sconfitte subite contro l'Austria, le quali spinsero all'esilio Carlo Alberto, la cui decisione stupì e fu ammirata anche dai repubblicani più convinti, tra cui Giuseppe Mazzini, che disse: «Quando lo vidi dopo Novara sdegnar la Corona e incamminarsi volontario all'esilio, io lo rispettai». Carlo Alberto, che morirà poco più tardi la pesante sconfitta e l'arrivo in Portogallo, era stato un principe enigmatico e sfortunato, ma il primo a scendere in battaglia contro una grande potenza straniera nel nome dell'Italia, intesa come nazione unica e indipendente. Si apriva su questa strada, sebbene ardua da proseguire, l'avventuroso regno di Vittorio Emanuele, il cui primo atto di sovrano sarebbe stato quello di negoziare l'armistizio con il maresciallo Radetzky, comandante dell'esercito austriaco e governatore del Lombardo-Veneto.
Per comprendere meglio come si è arrivati a questo momento tanto decisivo per la storia italiana ed europea è necessario volgere lo sguardo alla prima metà del secolo, quando il Congresso di Vienna, nel 1815, aveva dato inizio alla cosiddetta età della Restaurazione, nella quale le principali potenze europee - a seguito dei moti della Rivoluzione francese e alla caduta di Napoleone Bonaparte - si impegnarono nel ridisegnare la cartina d'Europa sulla base di un principio, alquanto anacronistico, di ripristino dell'Ancien Régime, riportando sul trono i sovrani spodestati dagli eventi che aprirono il nuovo secolo.
Il ritorno agli antichi poteri non poteva tuttavia essere accettato in un'Europa che aveva assunto una nuova coscienza popolare, come per esempio in Francia, dove i segnali di un nuovo assolutismo da parte del nuovo re Carlo X Borbone portò ad una nuova rivoluzione nel 1830, con la quale la corona passò a Luigi Filippo d'Orléans, proclamato dal Parlamento "re dei francesi per volontà della nazione", cambiamento che ristabilì una monarchia di tipo costituzionale destinata ad una breve durata a causa dell'avvento della Repubblica.
Nello stesso anno il Belgio visse una rivolta indipendentista che si concentrò a Bruxelles e che condusse alla costituzione di un regno indipendente dall'Olanda sotto la figura del sovrano Leopoldo I, divenuto nel 1831 primo re del Belgio.
Anche in Italia, mentre si diffondevano fortemente gli ideali patriottici a favore dell'unificazione, ebbero luogo diverse ribellioni, come per esempio quelle avvenute nei primi anni Venti a Napoli, dove re Ferdinando II Borbone fu costretto a concedere una Costituzione. Fu però in particolare nell'anno 1848 che si concentrarono le principali rivoluzioni, nelle quali il popolo insorse in nome di governi liberali. L'Austria fu uno dei paesi maggiormente sconvolti, così Carlo Alberto, cercando di approfittare della situazione, decise di dichiarare la guerra per liberare il nord Italia dalla sottomissione straniera. Nel frattempo il sovrano, preoccupato dei moti insurrezionali, aveva concesso la Costituzione a seguito di innumerevoli dubbi: è lo Statuto Albertino, che sarà la nostra costituzione sino alla fine della Seconda guerra mondiale e l'avvento della Repubblica.
A spingere Carlo Alberto contro l'Austria erano state le celebri Cinque giornate di Milano avvenute nel marzo del 1848, in cui il popolo si sollevò contro il dominio straniero, così il re di Sardegna, con le sue truppe - facendosi promotore dell'unità italiana - si recò nella città a sostegno dei rivoltosi, che lo accolsero per dare inizio alla Prima guerra d'indipendenza.
In questi anni la situazione politica sulla nostra penisola si presentava sostanzialmente divisa in quattro grandi domini, con al nord gli austriaci, al centro Italia lo Stato pontificio, al sud il regno borbonico delle Due Sicilie e nell'area della Sardegna e del Piemonte il Regno di Sardegna di Carlo Alberto. Il momento opportuno per realizzare l'unificazione nazionale sotto il comune ideale di una "resurrezione" definita appunto Risorgimento si respirava già da tempo negli scritti di intellettuali come Giacomo Leopardi o Ugo Foscolo, basti pensare alle Ultime lettere di Jacopo Ortis o al carme Dei sepolcri, ma anche nei testi di Massimo d'Azeglio, Silvio Pellico, nelle opere di Alessandro Manzoni - su tutte l'Adelchi - e, più che mai, nella musica di Giuseppe Verdi.
L'impresa risorgimentale risultava tuttavia di impervia realizzazione per l'esistenza di due fazioni contrapposte nel movimento nazionale, vale a dire quella democratica e quella liberal-moderata. La prima era sostenuta da Giuseppe Mazzini, fondatore nel 1831 del movimento politico della Giovine Italia, alla quale aderirà lo stesso Garibaldi, i cui tentativi insurrezionali volti alla costituzione di una repubblica unitaria e democratica si rivelarono però fallimentari. Più moderata era la fazione di Vincenzo Gioberti, nota con il nome di neoguelfismo per la volontà di porre il pontefice come guida spirituale e politica di una confederazione di stati italiani. Questa ipotesi, inizialmente irrealizzabile, sembrò concretizzarsi con l'elezione al soglio petrino del cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti. Papa Pio IX, che nel 1848 concesse la Costituzione, sembrò incarnare la figura di un pontefice liberale tanto auspicata da Gioberti, ma durante quello che fu il pontificato più lungo della storia la sua posizione, a causa del tramonto dello Stato pontificio con la Presa di Roma nel 1870, si fece sempre più conservatrice, in aperta rivalità con l'usurpatore piemontese Vittorio Emanuele.
Dalla parte opposta dei democratici vi erano i liberali e moderati, uniti attorno all'autorevole figura di Cavour, ministro del Regno di Sardegna, un uomo liberale che, nonostante le incomprensioni con Vittorio Emanuele, fu capace di trasformare il proprio regno in una forza europea di primo piano, sostenendo la corona sabauda quale forza unificatrice del paese. Il merito storico di Vittorio Emanuele, che ebbe anche la fortuna di avere al suo fianco personalità irripetibili nella storia d'Italia come Cavour e Garibaldi, fu quello di imporsi come figura di unione e non di scontro, lasciando liberi i propri uomini politici di realizzare i propri progetti, anche quando non era pienamente d'accordo - imponendosi quale figura capace di unire tutte quelle spinte unitarie così lontane ideologicamente - purché al di sopra di tutto vi fosse il bene della patria e l'ideale unitario, per il quale ognuno doveva essere in grado di porre in secondo piano i propri interessi personali.
Intanto la Prima guerra d'indipendenza guidata da Carlo Alberto non otteneva i risultati sperati, vacillando con una prima sconfitta a Custoza, in provincia di Verona. A seguito della ritirata venne concesso un armistizio - approvato a seguito della restituzione di Milano all'Austria - ma ormai l'esercito era stanco e demoralizzato, così la tregua posticipò solamente l'amaro e definitivo epilogo, che giunse nel marzo del 1849 a Novara.
A seguito dell'esilio del re suo padre, Vittorio Emanuele ereditò il potere in un momento alquanto complicato, chiamato al colloquio con Radetzky nell'Armistizio di Vignale. Fu in questa occasione che nacque il mito del "Re galantuomo", che si sarebbe opposto con fermezza alla richiesta del maresciallo austriaco di rinunciare allo Statuto albertino. In realtà Vittorio Emanuele, cresciuto ed educato all'idea assolutista della corona, non aveva approvato la decisione paterna di concedere la costituzione, temendo un indebolimento monarchico, dunque risulta più probabile che nell'incontro con il feldmaresciallo si sia preoccupato maggiormente di ottenere la concessione di un armistizio non disonorevole per il Piemonte, motivo per cui si era fatto da parte lo stesso Carlo Alberto sconfitto. Radetzky, che nutriva una sincera stima per il giovane sovrano del quale aveva partecipato al battesimo, si rivelò alquanto generoso negli accordi stabiliti nel corso dell'armistizio, ma certamente non per una personale simpatia, bensì in un tentativo di farsi amico il Piemonte contro il vero nemico, ossia la Francia repubblicana. Vittorio Emanuele, consapevole della necessità della pace a causa delle condizioni del suo esercito, promise allora una futura alleanza con l'Austria, scegliendo apparentemente una politica differente rispetto a quella paterna, nonché la volontà di rafforzare l'istituto monarchico. Sebbene il necessario ridimensionamento della leggenda del sovrano salvatore, patriotticamente, della costituzione, bisogna riconoscere che nel suo primo e non facile compito come re di Sardegna egli seppe assecondare il nemico, limitando i mali della sconfitta e aggirando con astuzia i pericoli che potevano presentarsi, favorendo in tal modo il corso della storia verso la tanto agognata unificazione territoriale.

Il giuramento sulla costituzione da parte di Vittorio Emanuele Re di Sardegna avvenuto a Torino nel maggio 1849.

Fatto rientro nella capitale sabauda, Vittorio Emanuele si impegnerà nella difesa e per il mantenimento dello Statuto, che alcuni reazionari della Corte e radicali del Parlamento avrebbero voluto disconoscere, pur nell'intenzione di non essere limitato nelle sue funzioni di monarca. Convinto nelle proprie decisioni politiche, mostrò sin da subito come fossero cambiati i tempi rispetto alle indecisioni e alle lunghe riflessioni amletiche paterne. La scelta nel ruolo di primo ministro ricadde così, senza particolari esitazioni nonostante i suoi aperti sentimenti liberali, sul marchese Massimo d'Azeglio, un patriota moderato e stimato, simile al sovrano dal punto di vista caratteriale. L'altra decisiva novità nella formazione del nuovo governo era Camillo Benso di Cavour, scelto come Ministro delle Finanze.
Fu proprio quando nel 1852 Cavour divenne Presidente del Consiglio che si vide Regno di Sardegna, a seguito dei fallimenti repubblicani, l'ultima possibilità di realizzare il sogno risorgimentale sotto la guida della dinastia sabauda e di una monarchia costituzionale. Decisiva per il progetto unitario fu l'alleanza del Regno di Sardegna con la Francia di Napoleone III in chiave anti-austriaca, dando inizio nel 1859 alla Seconda guerra d'indipendenza, per mezzo della quale le truppe francesi, unite a quelle sabaude, riuscirono od occupare la Lombardia. Importante fu anche il ruolo di Garibaldi - un mazziniano avvicinatosi in seguito alla corona ai fini dell'unificazione - nominato dal re comandante dei volontari del corpo di fanteria Cacciatori delle Alpi, i quali furono determinanti nella liberazione del territorio lombardo.
A giugno Napoleone III e Vittorio Emanuele entrano trionfalmente a Milano varcando il maestoso Arco della Pace, come ricorda l'iscrizione posta sulla sua sommità.

Il nord Italia viene liberato dai piemontesi e dall'alleato francese, mentre nei ducati al centro della penisola e nelle terre pontificie diverse sollevazioni popolari manifestano la volontà di annessione al Regno di Sardegna. Vittorio Emanuele, inaugurando nel gennaio 1859 la sessione legislativa del Parlamento, si era rivolto ai senatori e ai deputati con un discorso destinato a rimanere nella storia: «L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno non è pienamente sereno; ciò non di meno vi accingerete colla consueta alacrità ai lavori parlamentari. Confortati dall'esperienza del passato, andiamo risoluti incontro alle eventualità dell'avvenire. Quest'avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà e della patria. Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli dell'Europa, perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie ch'esso inspira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di Noi. Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Divina Provvidenza».
L'entusiasmo generale è immenso e le parole del sovrano lasciano intendere sia finalmente giunto il momento di completare il progetto di unificazione nazionale sotto lo scettro di Casa Savoia.
Nel luglio del 1859, quando l'annessione del Veneto sembra a portata di mano, Napoleone III decide inaspettatamente di interrompere la guerra contro gli austriaci e di stipulare l'armistizio di Villafranca a causa delle numerose perdite del suo esercito. Bisognerà aspettare infatti la Terza guerra di indipendenza, nel 1866, per la definitiva annessione del Veneto. Gli italiani di fede patriottica temevano il rischio della fine del loro sogno risorgimentale, tuttavia il generale Garibaldi raccolse nel maggio 1860 a Genova un migliaio di volontari per recarsi in Sicilia, dove erano forti le ribellioni antiborboniche in favore di un'annessione dell'Italia. Il progetto garibaldino sembra senza speranza, ma il successo dello sbarco a Marsala accresce l'esercito delle camicie rosse e l'Impresa dei Mille man mano procede risalendo la penisola e alla fuga Francesco II di Borbone, l'ultimo re di Napoli, che si rifugia a Gaeta nel sud del Lazio.
Nel frattempo Vittorio Emanuele, col proprio esercito, scende dal nord Italia completando la liberazione e nell'ottobre del 1860 incontra Garibaldi a Teano, in provincia di Caserta, che gli consegna il sud del paese. Non bisogna dimenticare anche il ruolo di Cavour, decisivo per la propria abilità politica e diplomatica soprattutto nella scelta di un'alleanza francese per sconfiggere l'oppressore austriaco. Il nuovo regno d'Italia è ormai costituito, ad eccezione di Roma e dello Stato pontificio, ed ha nelle figure del Conte di Cavour, di Garibaldi e del sovrano i suoi simboli nazionali.

L'incontro di Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele in un affresco del 1886 custodito presso la Sala del Risorgimento del Palazzo Pubblico di Siena.

Il 17 marzo del 1861 Vittorio Emanuele II fu proclamato a Torino primo re d'Italia, "per grazia di Dio e volontà della Nazione" e Cavour divenne il capo del primo Governo del Regno. La scelta del monarca fu quella di conservare nel proprio nome la numerazione sabauda in continuità con il passato della propria dinastia. Tale decisione - criticata al di fuori del Piemonte in quanto considerata come messaggio di una semplice estensione del Regno di Sardegna - rivendicava la centralità del suo casato nell'unificazione nazionale nonché una storia secolare che rendeva i Savoia la dinastia regnante più antica d'Europa. Diversa sarà tuttavia la scelta del figlio Umberto, che vorrà sottolineare invece l'importanza della nascita di una nuova nazione.
Pochi mesi dopo la proclamazione del Regno d'Italia il paese perse subito uno dei suoi simboli, ovvero Cavour, mancato nel giugno del 1861 a soli 51 anni. Vittorio Emanuele, nonostante le innumerevoli discussioni e incomprensioni, ne riconobbe la grandezza, recandosi personalmente al suo capezzale. Del suo primo ministro il sovrano fu deciso a perseguire l'ideale di "libera Chiesa in libero Stato", così gli sforzi si concentrarono sulla conquista della città eterna quale capitale del regno, un pensiero fisso anche per Garibaldi, che lanciò il celeberrimo grido "O Roma o morte".
Il patriota era intenzionato a ripetere un'azione militare simile a quella dei Mille per conquistare Roma, ma la difesa del papato da parte della Francia, precedentemente alleata al Regno d'Italia, portò il sovrano a fermare il generale, che rimase ferito ad una gamba presso Aspromonte, in Calabria, quando il regio esercito fu costretto ad arrestarlo per impedirgli di risalire nuovamente l'Italia con le sue Camicie rosse.
La "questione romana" si rivelerà più ardua del dovuto, soprattutto per l'ostilità di Pio IX, che subì man mano la perdita di numerosi territori che passarono al nuovo stato italiano. La sua reazione fu quella di scomunicare tutti coloro che avevano concorso all'usurpazione di queste terre che prima appartenevano allo Stato Pontificio. Come soluzione provvisoria, in attesa di entrare a Roma, nel 1865 si decise allora per il trasferimento della capitale del regno a Firenze, escludendo l'opzione di Napoli che essendo stata la capitale del Regno borbonico aveva tutte le prerogative per esserlo anche del Regno d'Italia. Vittorio Emanuele lascerà controvoglia la città di Torino, culla della sua dinastia, dove si verificarono numerose manifestazioni di ribellioni da parte di un popolo che si sentiva tradito dal sovrano, il quale stabilì la nuova residenza reale a Palazzo Pitti.
Bisognerà attendere il 20 settembre del 1870 per l'ingresso del regio esercito italiano nello Stato pontificio e l'occupazione di Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Il pontefice, che vide la fine del secolare potere temporale, subì l'episodio come una vera e propria aggressione - nota infatti come "Presa di Roma" - e si dichiarò prigioniero. Solamente nel 1929, regnante Vittorio Emanuele III - grazie ai Patti lateranensi firmati da Benito Mussolini - furono regolati i rapporti tra lo Stato e la Santa Sede. Pio IX si apprestava nel mentre a promulgare il Non éxpedit, sconsigliando ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana.
Fu forse proprio per i cattivi rapporti con il papato che Vittorio Emanuele sembrò procrastinare l'ingresso nella nuova e definitiva capitale, che avvenne solo a fine gennaio 1871, quando fu quasi costretto a causa di un violento alluvione che aveva portato all'esondazione del Tevere. Anche l'idea di soggiornare al Quirinale non piaceva al sovrano, superstizioso nell'abitare un palazzo contestato dal pontefice. Sarà più avanti con Margherita che il Quirinale conobbe il suo massimo splendore, in quella che divenne la corte più ambita d'Europa per nobili e intellettuali. Vittorio Emanuele, in occasione del matrimonio tra Umberto e Margherita, istituì come scorta al corteo il reggimento dei Corazzieri, la guardia d'onore dei re, ancora oggi attivo in Quirinale al servizio del Presidente della Repubblica.

Insieme alla vicenda intricata di Roma capitale il primo governo dell'Italia unita - noto come Destra storica per distinguerlo dalle ideologie di destra, fortemente nazionaliste, che si diffonderanno nel corso del Novecento - dovette concentrarsi su numerosi altri problemi economici e sociali.
I primi presidenti del Consiglio - seguaci di Cavour di posizioni liberali come Farini, Menabrea, Lanza e Minghetti - si occuparono così del completamento del processo di unificazione nazionale, rafforzando il senso di unità e di nazione, poiché, come affermò Massimo d'Azeglio: «Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani». L'impresa si rivelava tutt'altro che semplice se leggiamo la seguente riflessione di d'Azeglio, parole ancora oggi incredibilmente attuali: «L'Italia da circa mezzo secolo s'agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata in buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse è la lotta interna. I più pericolosi nemici d'Italia non sono i Tedeschi, sono gl'Italiani.
E perché?
Per la ragione che gl'Italiani hanno voluto far un'Italia nuova, e loro rimanere gl'Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a riformare l'Italia, e nessuno s'accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l'Italia, come tutt'i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero come contro i settari dell'interno, libera e di propria ragione, finché grandi e piccoli mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può. Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con un solo vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani che sappiano adempiere al loro dovere; quindi che si formino alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto».

La Destra storica, che governò per i primi quindici anni del regno, basò la propria politica sulla centralizzazione dei poteri dello stato, costretta a prendere decisioni forti come il richiedere cospicue tasse al popolo al fine di rafforzare il potere e mettersi in pari con i bilanci a seguito degli sforzi risorgimentali.
Altri aspetti salienti della politica dei primi anni del Regno d'Italia furono il tentativo di colmare le divergenze tra il nord e il sud, contrastando il fenomeno del Brigantaggio nel Mezzogiorno.

Intanto il "Gran Re", che mai rinunciò alla propria passione per la caccia nonostante la fragilità dei suoi polmoni, contrasse una febbre che lo portò rapidamente verso la fine, nonostante avesse solo cinquantotto anni. Aveva tuttavia vissuto un'esistenza straordinaria, piena di eventi e di grandiose vittorie che renderanno eterno il suo nome nella storia. Si spense al Quirinale nel primo pomeriggio del 9 gennaio 1878. La sua salma fu inumata presso il Pantheon, a seguito di solenni funerali, sebbene il nuove re Umberto volesse esaudire il desiderio paterno di essere seppellito a Torino, nella Basilica di Superga, luogo che ospita le spoglie mortali dei regnanti della dinastia sabauda.
La regina Vittoria d'Inghilterra - che aveva incontrato Vittorio Emanuele nel 1855, quando era ancora Re di Sardegna, - espresse con sincerità il proprio cordoglio: «Pessime notizie sul povero Re d'Italia. Le sue condizioni sono critiche. [...] Era uno strano uomo, sregolato, e spesso sfrenato nelle sue passioni (specialmente per le donne), ma un coraggioso, prode soldato, con un cuore generoso, onesto, e con molta energia e grande forza. [...] Con me il re è sempre stato molto gentile. [...] Mi è stato detto che mi era veramente molto affezionato. Avevo sempre sperato di poterlo rivedere». Papa Pio IX, che seguirà Vittorio Emanuele nemmeno un mese più tardi, lo salutò con commozione, mostrando una grande ammirazione nei suoi riguardi nonostante si fossero fatti la guerra per così tanti anni: «è morto come un cristiano, come un sovrano e come un galantuomo». Si chiudeva una pagina di storia italiana, sicuramente una delle più gloriose, quella del Risorgimento. Se l'Italia era nata ed era divenuta monarchica il merito non poteva che essere suo, di Vittorio Emanuele II.

Le esequie al Pantheon, dove si recò una folla immensa, vengono così descritte da Edmondo De Amicis in Cuore: «Giungeva davanti al Pantheon, a Roma, il carro funebre che portava il cadavere di Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia, morto dopo ventinove anni di regno, durante i quali la grande patria italiana, spezzata in sette Stati e oppressa da stranieri e da tiranni, era risorta in uno Stato solo, indipendente e libero; dopo un regno di ventinove anni, ch'egli aveva fatto illustre e benefico col valore, con la lealtà, con l'ardimento nei pericoli, con la saggezza nei trionfi, con la costanza nelle sventure. Giungeva il carro funebre, carico di corone, dopo aver percorso Roma sotto una pioggia di fiori, tra il silenzio di una immensa moltitudine addolorata, accorsa da ogni parte d'Italia, preceduto da una legione di generali e da una folla di ministri e di principi, seguito da un corteo di mutilati, da una selva di bandiere, dagli inviati di trecento città, da tutto ciò che rappresenta la potenza e la gloria d'un popolo, giungeva dinanzi al tempio augusto dove l'aspettava la tomba. [...] L'Italia dava l'ultimo addio al suo re morto, al suo vecchio re, che l'aveva tanto amata, l'ultimo addio al suo soldato, al padre suo, ai ventinove anni più fortunati e più benedetti della sua storia. Fu un momento grande e solenne. Lo sguardo, l'anima di tutti trepidava tra il feretro e le bandiere abbrunate degli ottanta reggimenti dell'esercito d'Italia, portate da ottanta uffiziali schierati al suo passaggio; poiché l'Italia era là, in quegli ottanta segnacoli, che ricordavano le migliaia di morti, i torrenti di sangue, le nostre più sacre glorie, i nostri più santi sacrifizi, i nostri più tremendi dolori. [...] Addio, buon re, prode re, leale re! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finché splenderà il sole sopra l'Italia».

Due anni prima della scomparsa del sovrano, nel 1876, il potere politico del regno passò alla Sinistra storica, tra i cui interessi vi furono quello educativo e scolastico, spingendo le nuove generazioni ad un comune senso patriottico, sentimento che poteva rafforzarsi per mezzo della componente visiva attraverso monumenti al re, a Garibaldi e agli altri eroi del Risorgimento che cominciarono ad essere innalzati nelle principali piazze delle nostre città. L'esempio più grandioso è certamente l'immenso monumento al Padre della Patria, il Vittoriano, che sorge in Piazza Venezia a Roma. Eseguito dall'architetto Giuseppe Sacconi per volere di re Umberto, venne inaugurato a seguito di lunghi lavori nell'anno 1911, per il cinquantesimo anniversario dell'unificazione nazionale, alla presenza di Vittorio Emanuele III, di sua moglie Elena del Montenegro, della regina madre Margherita e dell'allora Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. Sintesi maestosa della Patria, questo altare di marmi è uno dei più imponenti capolavori che mai sia stato costruito per la memoria di un monarca, a eterna gloria del primo re d'Italia.

Note

Le fotografie dell'Arco della Pace e del monumento a Vittorio Emanuele in Piazza Duomo a Milano sono state scattate nel luglio 2024, mentre quella al Vittoriano di Roma nel giugno 2022.

Bibliografia

  • Vittorio Emanuele II - Denis Mack Smith - Mondadori
  • I Savoia re d'Italia - Denis Mack Smith - Rizzoli
  • Il re che fece l'Italia. Vita di Vittorio Emanuele II di Savoia - Silvio Bertoldi - Rizzoli
  • Il re che tentò di fare l'Italia. Vita di Carlo Alberto di Savoia - Silvio Bertoldi - Rizzoli
  • Savoia. Album dei re d'Italia - Silvio Bertoldi (a cura di) - Rizzoli
  • Vittorio Emanuele II - Pier Francesco Gasparetto - Rusconi
  • I Savoia. Novecento anni di una dinastia - Gianni Oliva - Mondadori
  • La corte dei Savoia (1849-1900) - Carlo M. Fiorentino - il Mulino
  • O Roma o morte. 1861-1870: la tormentata conquista dell'unità d'Italia - Arrigo Petacco - Mondadori
  • L'ultimo giorno del Papa Re. 20 settembre 1870: la breccia di Porta Pia - Antonio Di Pierro - Mondadori
  • Cronache dell'Unità d'Italia. Articoli e corrispondenze (1859-1861) - Andrea Aveto (a cura di) - Mondadori
  • Il Risorgimento italiano - Alberto Mario Banti - Editori Laterza
  • Il senso del tempo. Volume 2 - Alberto Mario Banti - Editori Laterza
  • Cuore - Edmondo De Amicis (introduzione di Vittorio Spinazzola) - BUR

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