La rosa purpurea del Cairo

Ognuno di noi ha immaginato almeno una volta nella vita di abbandonare la realtà e trascendere nella fantasia, divenendo parte di quel meraviglioso che solo il cinema, la “fabbrica dei sogni”, è capace di creare. È quanto accade a Cecilia, interpretata da Mia Farrow, in un film del 1985 fra i capolavori scritti e diretti da Woody Allen. Con la consueta ironia, il regista riesce a toccare la profonda psicologia umana, restituendo al cinema la sua vera essenza, messa in discussione nella stagione postmoderna dall’incremento delle nuove tecnologie.
Dialogando con il passato – l’opera è ambientata all’epoca della Grande Depressione e a livello cinematografico durante l’età d’oro di Hollywood – Allen indaga il rapporto fra realtà e finzione cinematografica. Tutto ciò avviene con una sensibilità che permette allo spettatore di immedesimarsi nella protagonista, la quale si accorge, dopo essere tornata varie volte a guardare la pellicola di cui si è innamorata, di essere osservata da Tom Baxter, un attore che non recita una parte principale, ma da cui la donna rimane affascinata.
Improvvisamente Tom esce dallo schermo per incontrarla, decidendo di fuggire con lei per essere finalmente libero. Fra il pubblico presente in sala, rimasto attonito ma intenzionato a farsi rimborsare il biglietto, e gli attori ancora in scena, comincia un dialogo surreale da cui scaturisce la convinzione che la pellicola non può proseguire con l’assenza di uno dei personaggi. Alcuni degli attori manifestano il desiderio di seguire Tom per respirare la libertà, tuttavia vengono accusati di avere intenzioni ribelli e derivanti da convinzioni politiche, allusione al cambiamento della condizione dell’artista nell’epoca della postmodernità, ormai libero di fare arte in qualunque modo e per qualsiasi scopo, ma dove ad essere messo in discussione è anche il concetto stesso di “arte”.
La situazione assurda a cui assistiamo in questa scena sembra riprendere lo stile di una delle opere teatrali di Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore (1921), dove l’espediente metateatrale diviene nel caso di Allen il modo di indagare il ruolo del cinema in chiave contemporanea e mostrarne tutta la magia, tanto che la sensazione che si prova nel vedere la pellicola è quella di volersi recare in sala anche solo per fantasticare di vivere la medesima situazione. Il regista mostra una vena pessimista della realtà, nella quale Cecilia è delusa dal matrimonio e da un marito fannullone, esaltando invece il fantastico, dove la protagonista può permettersi di vivere un’avventura sentimentale idilliaca. L’incontro con Gil Shepherd, l’attore interprete del personaggio di Tom, rivela però la concreta possibilità di raggiungere davvero la felicità, speranza alimentata dal fatto che Allen stava vivendo in quegli anni una relazione con la stessa Farrow. La difficile scelta da parte di Cecilia, “per quanto sia forte la tentazione, devo scegliere il mondo reale”, è un punto fondamentale del film, nonostante ne rimarrà delusa non appena l’attore lascerà la città insieme alla compagnia.
Quello che rimarrà immutato è però il suo amore per il cinema, incantata nel finale da un intenso ballo tra Fred Astaire e Ginger Rogers.
La rosa purpurea del Cairo sviluppa una storia lineare in cui si assiste ad un percorso di crescita interiore da parte della protagonista, interpretata magistralmente dalla Farrow, con il regista che pone l’attenzione sul ruolo e la psicologia della donna all’interno della società. Così, partendo da un personaggio apparentemente debole e vittima del marito, si giunge ad una figura emancipata, sicura delle sue scelte, che fa della passione per il cinema una ragione in più per vivere ed interrogarsi sulle domande che si pone, come quelle legate a un senso religioso.
Le scenografie rispecchiano perfettamente l’America della Grande Depressione, con la sua povertà e i suoi parchi divertimenti abbandonati, mentre a livello musicale la canzone Cheek to Cheek di Fred Astaire richiama con sottile nostalgia gli anni della Hollywood classica.

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