L'assiuolo

In un breve scenario impressionista, attraverso le suggestioni sonore della natura, è ambientata una delle poesie più drammatiche di Giovanni Pascoli, che percepisce nel verso lugubre onomatopeico di un piccolo rapace notturno il richiamo del "memento mori" che torna a conclusione di ognuna delle tre strofe. La sensazione di angoscia sembra accrescere man mano, cominciando dalla descrizione di un paesaggio al sopraggiungere dell'alba - mentre il cielo, privo di luna, è illuminato a giorno dai lampi - per arrivare sino all'apice di un moto di agitazione interiore del soggetto - spaesato e impaurito nel suo cuore che singhiozza - che si manifesta nell'anafora del verbo "sentivo" della seconda strofa. Nell'ultima, invece, il riferimento alla morte e all'aldilà è ancora più evidente nei tintinni provenienti da porte invisibili - quelle dell'oltremondo - e generati dai sistri, ossia strumenti musicali propri degli antichi Egizi, una civiltà estremamente legata al culto dei morti.

Dov'era la luna? ché il cielo
notava in un'alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com'eco d'un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d'argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s'aprono più?...);
e c'era quel pianto di morte...
chiù...