La figlia di Iorio

Nella vastissima produzione letteraria di un autore dalla vita inimitabile quale Gabriele d'Annunzio, un ruolo di assoluta centralità è quello della drammaturgia, che trova il suo vertice espressivo nella tragedia del 1903 intitolata La figlia di Iorio.
A partire dalla Città morta del 1898, giungendo sino al Martirio di San Sebastiano musicato da Claude Debussy nel 1911, che tanto farà scandalo, passando per la Francesca da Rimini (1901) ispirata al Canto V dell'Inferno dantesco, La figlia di Iorio si colloca in un periodo dalla spiccata intensità creativa per il suo autore, quale l'inizio del Novecento, a seguito della pubblicazione del romanzo Il fuoco (1900) e dell'inizio della stesura del grandioso progetto delle Laudi. Più precisamente, la tragedia è da circoscrivere all'estate dell'anno 1903, in concomitanza con la nascita del più fortunato tra i libri delle Laudi, vale a dire Alcyone. L'opera segnò tuttavia la crisi del suo sodalizio lavorativo e affettivo con la grande attrice Eleonora Duse, alla quale fu preferita nel ruolo di protagonista, per ragioni d'età e per la salute cagionevole, la giovane e talentuosa Irma Gramatica.
L'esigenza che spinse il Vate verso il teatro fu sicuramente quella di stabilire un rapporto diretto con il pubblico, al fine di influenzarlo politicamente con i suoi ideali, per questo nella sua idea scenica la parola doveva ricoprire un ruolo centrale, anche a scapito dell'azione e del senso drammatico. Il suo teatro si compone così, in gran parte, anche di versi e non solo di prosa, elemento che riprende le tradizioni più remote, allontanando d'Annunzio dal dramma borghese europeo dei suoi anni o dalle sperimentazioni delle avanguardie novecentesche.
La figlia di Iorio, portata in scena per la prima volta al Teatro Lirico di Milano nel marzo 1904, è l'occasione per il poeta di toccare temi primordiali del teatro classico quali la superstizione e la paura legata al diverso, cui vengono attribuiti poteri magici, il complesso rapporto fra padre e figlio, esasperato sino alle conseguenze più tragiche dalla comune passione amorosa, infine la ritualità del sacro ed il tema complesso della donna. Tutte queste tematiche prendono vita in Abruzzo, la terra nativa di d'Annunzio - nato a Pescara l'anno 1863 - a cui aveva già dedicato le prose giovanili di Terra vergine ma anche le più recenti poesie che chiudono il libro di Alcyone, si pensi a I pastori. L'Abruzzo che è lo sfondo della tragedia dannunziana è un luogo arcaico e custode di antiche tradizioni popolari, tanto agreste e contadino quanto ancestrale e superstizioso, di cui abbiamo perfetta rappresentazione visiva in una tela a tempera di Francesco Paolo Michetti, pittore che strinse un sincero sodalizio con d'Annunzio, che descrisse così il dipinto nella didascalia che la accompagnava nella prima esposizione pubblica: «Rappresenta un episodio della vita abruzzese, in una delle terre interne, alle falde della Majella, dov'è ancora forte l'impronta della razza originale e quasi immutato il costume antico. La figlia di Iorio - colei che peccò per amore e che dal suo peccato è cinta d'infamia e di fascino - passa pel sentiere della montagna, mentre la seguono le irrisioni e i desideri degli uomini ozianti in varie attitudini sul ciglione sassoso».
Per comprendere la nascita della tragedia bisogna porre particolare attenzione al ruolo di Michetti, che si può definire coautore della trama, sebbene sia stato proprio d'Annunzio a dichiarare come la vicenda non prenda spunto dal quadro, dipinto dal Michetti nel 1895, bensì da un episodio che avevano vissuto nel corso della loro giovinezza proprio nella terra abruzzese, nel paesino natale del pittore, quando in una calda giornata estiva videro passare una giovane donna dalle nobili fattezze, inseguita da un gruppo di contadini affaticati dal lungo lavoro sotto il sole nei campi e inebetiti dal vino. Così Michetti, al cui tema dedicò una serie di versioni e bozzetti dando vita ad un vero e proprio ciclo, fermò per sempre l'immagine di quella seduttrice già in alcune tele degli anni Ottanta dell'Ottocento, mostrando una figura femminile enigmatica in cammino, tanto bella da lasciare ammaliati i pastori che incontrava sulla strada, ma che nella tragedia dannunziana assume i tratti della femme fatale contro cui si rivolge la maldicenza popolare, come la "lupa" di verghiana memoria.
Così d'Annunzio in una lettera all'amico durante la stesura della tragedia: «Queste settimane d'estate resteranno memorabili per me. Non avevo mai lavorato con tanta violenza e non avevo mai sentito il mio spirito in comunione così forte con la terra. Quest'opera viveva dentro di me da anni, oscura. Non ti ricordi? La tua Figlia di Iorio fece la prima apparizione or è più di vent'anni, col capo sotto un dramma di nubi».

La vicenda della tragedia, articolata in tre atti, è incentrata sul tragico amore tra Mila, la figlia di un mago di nome Iorio, ed il pastore Aligi, di cui il padre Lazaro di Roio sta preparando le nozze. Il clima sereno è però turbato dai tristi presagi del giovane pastore, sino a quando compare sulla scena la bella Mila di Codra, donna dalla cattiva fama che porterà scompiglio e dolore. Incitato dalle donne presenti per le nozze, Aligi sta per colpire Mila a morte, ma viene fermato dalla visione dell'angelo custode. Il pastore e la donna fuggiranno insieme e troveranno rifugio in montagna, in una caverna che è stata indentificata come la grotta del Cavallone, sul massiccio montuoso appenninico della Maiella. Uniti da una passione autentica, i due sperano un giorno di recarsi a Roma per ottenere la dispensa papale e sposarsi. La trama si volge tuttavia verso un tragico epilogo quando Ornella, sorella di Aligi, racconta a Mila lo stato di disperazione della loro famiglia a seguito della partenza di suo fratello, addolorando profondamente la donna. Mila sceglie così di fuggire, ma si imbatte nel padre di Aligi, Lazaro, il quale cerca di sedurla con prepotenza. Per salvare l'amata dai soprusi sessuali del genitore, Aligi finisce per ferire mortalmente il padre ed è quindi condannato ad un drammatico supplizio. Sarà proprio Mila, nel terzo atto, ad evitare la morte dell'amato, accusandosi di stregoneria e finendo così sul rogo, celebrando nelle battute finali la fiamma purificatrice: "La fiamma è bella!".